“Consapevolezza e intenzione: le parole nel mio zaino di scuola”.
La prima fase del mio percorso in Artemisia è una fotografia dell’istante in cui ho aperto il sito della scuola. Visualizzare ora quel momento mi riporta in un mio tempo storico e in uno scenario di vita estremamente difficili: ero reduce di un periodo di gravi problemi di salute che mi hanno fatto incontrare la paura della morte. Nell’immagine di allora che cerco adesso di mettere a fuoco, mi intravedo impegnata a prendere le distanze dal terribile shock che avevo subito, proprio subito.. , e sentivo che la spinta verso la vita, che mai mi aveva abbandonata, era riuscita a portarmi finalmente al primo gradino da cui potevo cominciare a vedere di nuovo la realtà che avevo smarrito. Stavo cambiando la pelle, per allontanare definitivamente quella figura che lo specchio di casa mi aveva sbattuto in faccia per un anno intero.
In quel periodo stavo lavorando come impiegata in un Ufficio Comunale dove tutti i giorni portavo forzatamente il mio corpo e imploravo la mia mente di rimanere lucida. In quella stanza vuota di parole, di affetti e di umanità, non era riuscita ad entrare la mia storia, la mia essenza, io, e ogni volta che avevo tentato e liberato l’espressione di me, mi catapultavo addosso grandi umiliazioni, mai vissute prima di allora. La realtà-specchio che avevo di fronte mi rifletteva il punto in cui mi trovavo in quel periodo della mia vita e il mio umore del momento.
Avevo il terrore che il dolore di quel momento mi facesse di nuovo ammalare, quindi mi impegnavo con tutte le forze rimaste, a guardare il sole con gli occhi aperti, a far entrare in ogni parte del mio corpo tutta la sua luce e il suo potente calore. Camminavo tutti i giorni per sentire che andavo avanti, e cercavo una strada dove ritrovare e accompagnare di nuovo quella “me stessa” che ero stata, attenta, profonda, seria, interessata, concentrata, presente. Il desiderio di gioia e leggerezza era improponibile, la pace che cercavo era impregnata ancora di una calda melanconia.
Quando avevo scelto di cambiare lavoro, casa, paese di residenza, l’illusione di trasformare radicalmente la mia vita e la pretesa di improvvisare una nuova identità, un nuovo ruolo sociale, una nuova immagine di me, aveva rinnegato e sacrificato la parte ancestrale della mia anima, quindi la ricostruzione doveva ripartire dall’origine, dalle fondamenta..
La strada che cercavo sarebbe stata nuova per forza, ma questa volta volevo assolutamente collegarla a quella smarrita, per ripescare le parti di me che si erano sparse nell’universo, ricongiungerle tutte e con loro ripartire nel cammino della mia vita.
La scuola è stata un punto di partenza per questo cammino, una strada principale sicura, luminosa, pianeggiante, alla quale si riconducevano affannati sentieri di boschi fitti e inaccessibili.
La mia ricerca su internet e il mio arrivo sul sito di Artemisia si collocano quindi in questa mia dimensione emotiva. Nel sito ho guardato con attenzione i video di alcune conferenze sul tumore al seno, tenute dalla Direttrice, e il contatto empatico con Arianna è avvenuto quando ho sentito la sua esperienza di malattia. L’immagine che mi è piombata addosso è stata potentissima, le emozioni erano forti e contrastanti tra loro. Da una parte sentivo una stima enorme per quella donna che parlava del tumore in quel modo, davanti a tutti, senza quella mia stupida vergogna che non avevo ancora debellato; dall’altra non capivo il senso di mostrare quella parte così intima di sè sulla prima pagina di un sito di una scuola. In queste forme reattive il mio io stava trasformando in modo inconscio una pulsione inesprimibile nel suo esatto contrario: ciò rappresentava bene me stessa in quel momento. Ma il fatto che mi stavo trovando sul primo gradino mi aveva permesso di vedere e di scegliere di incontrare quella donna.
Quindi, alla prima fase del colloquio che ho fatto con Arianna io sono arrivata con tutto questo…
Oggi così rifletto sull’arrivo delle persone al loro primo colloquio, e metto pensiero e attenzione su cosa stanno portando con loro, consapevole che quel bagaglio prezioso riempito prima di partire, di storie, di emozioni e di aspettative potrà aprirsi e mostrarsi in parte o tutto solo con delicatezza e rispetto, nel sacro intreccio relazionale del colloquio. Anche per chi porta se stesso in uno spazio di ascolto esiste quindi una prima fase di “preparazione”, peculiare e personale.
Ricordo il setting del mio primo colloquio con Arianna, il tavolino non proprio in mezzo ma un pò spostato e la giusta distanza delle sedie. La stanza non mi piaceva, nè i colori delle pareti nè i disegni. Ho sempre dato estrema importanza ai luoghi per scegliere se sentirmi bene o a disagio e in quella stanza non mi sarei sentita bene…
Ed ecco il perchè…
Iniziava così la seconda fase del mio percorso e durante la mia presentazione, dopo poche parole iniziali, ho raccontato la mia malattia. In un attimo ho sentito trasformarsi il registro emotivo della conversazione, avevo la sensazione di aver invaso forse, quella persona di fronte a me, di qualcosa che non voleva più ascoltare, l’avevo riportata probabilmente in uno stato d’animo di paura e tristezza, e per questo mi sentivo in colpa e stupida.
Ero a disagio, come al solito dimostravo di non sapermi gestire le emozioni, soprattutto la vergogna, e la mia ansia era come sempre stretta al mio fianco. Per questo mio modo di essere ero riuscita a sentire un disagio emotivo di Arianna, così, dopo, mi ero poi anche accusata per questo.
Ero assolutamente inconsapevole delle mie proiezioni.
Uscita da lì avevo deciso all’istante di iscrivermi a scuola, può sembrare contradditorio, ma invece è proprio in linea con il modo in cui ho sempre affrontato la vita: se c’è qualcosa che tocca quel livello di me dove si incontrano imbarazzi e paure insieme ad entusiasmo e sfida, è certo che lì in mezzo voglio passare, perché sento forte la mia voce che mi dice “se passi e attraversi quella zona, dopo sarai più bella”. E così, per non rischiare di scappare dalla fatica che avrei dovuto affrontare, avevo pagato subito tutta la quota annuale.
Dal mio primo incontro con Artemisia mi ero portata a casa il coraggio, in questo caso impersonato da quella donna bionda e sorridente che a me sembrava aver superato dure prove di vita.
Ero giunta ad Artemisia dove ho scelto di stare per aiutare me, dove ho visto l’aiuto che più mi serviva in quel momento.
Ho cominciato con una lezione di una giornata intera in cui il gruppo condivideva idee e progetti pensati per i tirocini ma anche per il dopo-scuola. Eravamo alla fine dell’inverno e in sintonia con il risveglio della mia primavera. Il gruppo era riuscito a trasmettermi impegno e progettualità nel percorso di ricerca e di crescita. Non sapevo ancora se il counseling sarebbe stato per me un lavoro o solo un mio strumento di vita, ma era il percorso che mi interessava in quel momento, non il traguardo. E le persone del gruppo che avevo di fronte ci stavano bene con me sulla strada principale, sentivo che di loro potevo fidarmi.
Ho cominciato a vedere e portare me, i miei bisogni e a sentire il carico emotivo ingrandirsi di giorno in giorno: entravo così sempre di più nel vivo della seconda fase del percorso.
Quella maestra, quella classe e tutto quel contesto rappresentavano una buona opportunità da sfruttare al massimo per mettermi in gioco , per mostrarmi nuda il più possibile e starmi poi a guardare nelle mie reazioni, nelle mie sensazioni e paure. I primi corsi sulle emozioni, sulle tipologie di personalità, sul grafo, sulla teoria degli strati, sulle fasi del colloquio, sull’empatia, sull’ascolto, sui meccanismi di difesa, mi avevano trascinata subito a fondo dentro di me e introdotta immediatamente nel mondo del counseling. Durante queste lezioni di argomenti interessanti, trattenevo sempre la voglia di comunicare che sentivo prorompente, avevo tantissime parole da dire a riguardo, ma non potevo mica monopolizzare tutti i momenti con le mie cose..eh..c’erano anche gli altri, che peraltro non sembravano farsi alcun problema a riportare con calma e chiarezza il loro pensiero.. mi sentivo la sola in quello stato… così, quando percepivo che poteva essere il mio turno e mi autorizzavo a fare finalmente qualche intervento, impegnata a renderlo molto interessante e originale visto che stavo rubando l’attenzione e lo spazio altrui, carica di pretese e di aspettative nei miei confronti, di ansia da prestazione e di mille cose da dire, usciva da me qualcosa di veramente imbarazzante…e finivo col fiato corto e l’espressione impietrita, sollevata solo perchè ero certa che nessuno avrebbe potuto sentire il rumore assordante del battito del mio cuore.
Affrontare e superare l’ansia è sempre stato un obiettivo di vita per me.
Parlare davanti a tutti era ogni volta una prova che non volevo mollare, ed ero disposta così a continuare il mio cammino per non sedermi sul bordo della strada a compiangermi con la testa tra le mani. Quindi mi sono scelta un’altra opportunità di sfida e questa volta davvero con coraggio, per giocarmi più cartucce possibili mirando alle mie paure: presentare il mio sociogenogramma al gruppo.
L’ho studiato e preparato a casa con cura e poi di fronte alla domanda di chi voleva portare il suo sociogenogramma ho risposto in modo deciso e calcolato e ho scelto che quello spazio doveva essere tutto mio. Gli elementi importanti che erano emersi dalla mia storia famigliare mettevano luce su parecchi eventi, coincidenze di fatti, nomi, malattie, morti, abbandoni, migrazioni, attività lavorative ecc. Il filo conduttore dei miei legami che avrebbe dovuto ricondurmi ad un destino scritto e definito, sembrava però essere stato reciso ad un certo punto da me, dalla mia volontà di scegliere.
Avevo bisticciato per tanto tempo con i miei parenti interiori, rinnegato la mia stirpe misera e disagiata di cui ho sempre provato vergogna, quella che senza saperlo mi aveva spinto a scegliere di lavorare ai Servizi Sociali per dimostrare a tutti che io stavo dall’altra parte della società, quella delle buone abitudini e delle buone maniere. Nella mia ricerca, il lavoro con questo prezioso strumento mi ha fatto il bellissimo scherzo di farmi scoprire che alcune parti di me che vedevo dentro le figure antiche del mio albero, erano invece meravigliose. Il disegno del ritratto di ogni personaggio della storia era un’opera d’arte che avevo scelto di creare con rispetto, e più riuscivo a perdonare ogni protagonista, più il quadro diventava bello agli occhi dello spettatore.. e viceversa.
Ricordo che tra le tante parole raccolte come rimando dal gruppo che aveva partecipato alla mia mostra personale, una in particolare l’ho portata con me per sempre: “dignità”, che da vocabolario significa ” rispetto e onore che la persona, conscia del proprio valore sul piano morale, deve sentire nei confronti di se stesso ..”
E ancora, durante la narrazione, drammatizzata dalle mie lacrime silenziose agli occhi di tutto il pubblico, scese in sincronia con la parola “malattia”, pronunciata da me con voce roca e imbarazzata, Arianna è arrivata per regalarmi un’altra parola sacra che mi avrebbe restituito la più grande speranza disattesa da troppo tempo ormai : “guarigione”.
Nella seconda fase del mio percorso avevo già potuto così sperimentare e comprendere cosa fossero l’accoglienza, l’ascolto, l’empatia, il valore del gruppo, il rispetto e il non giudizio per ogni storia di vita. Perchè ho avuto in dono tutto ciò quando ho portato i miei bisogni di ritrovare la strada che avevo perso, andare oltre la malattia, e affrontare e gestire meglio la mia ansia. Bisogni esplicitati in modo prima confuso, poi sempre più focalizzato.
Procedendo, direi che il passaggio nella fase centrale del mio lavoro è cominciata con il primo residenziale, che mi ha costretta ad uscire dalla mia zona di comfort.
Arianna mi ha accompagnata con attenzione e delicatezza in questo passaggio attraverso un gesto di gentilezza, quello di consentirmi di non dormire nella struttura insieme al gruppo, dimostrando un grande esempio di empatia e di non giudizio verso il mio stato d’animo del momento e i miei bisogni. Il mio sonno ha sempre rappresentato per una come me qualcosa che, sfuggendo al mio controllo, non poteva subire assolutamente cambiamenti improvvisi perchè mi avrebbero troppo destabilizzata per il giorno seguente e non solo. In quel periodo stavo da poco cominciando a rimettere in sesto i miei ritmi naturali del sonno senza l’utilizzo di niente, quindi non potevo rischiare. In tanti contesti residenziali, anche quelli più aperti alla crescita personale, dormire con gli altri sembra essere una condizione assoluta di inclusione o di esclusione dal gruppo e dal percorso. Ero terrorizzata all’idea che anche in Artemisia fosse così, quindi la meravigliosa sorpresa della disponibilità pacifica di Arianna me la sono messa in valigia al rientro. Ma il regalo, più grande ancora, l’ho ricevuto al secondo residenziale, sempre dalla stessa persona: senza che io le chiedessi nulla, un suo messaggio su watsapp mi annunciava che nell’albergo dove andavamo mi aveva riservato una camera tutta per me. Niente valigia, questa volta quel gesto gratuito era amore per il mio cuore.
Il primo residenziale in mezzo ai boschi mi ha permesso una profonda immersione dentro di me. I momenti di ascolto, di confronto, di contatto umano, le esercitazioni giocose e conviviali, permettevano, in quel contesto di potente contatto con la natura, di allargare i confini dell’idea di me stessa. La dimensione del mio corpo e quella della mia mente, la dimensione individuale e quella collettiva, quella egoistica e quella altruistica diventavano in quel gruppo, in quell’ambiente, una sola unità. Le mie fughe tra gli alberi riattivavano le mie energie vitali, l’irrequietezza e l’agitazione scaturite da emozioni forti, connaturate allo spazio e al tempo condiviso con tanta gente, si dissolvevano nell’aria e respirando a pieni polmoni mi ricaricavo fisicamente per predispormi poi ad un contatto più armonioso con me stessa e con gli altri, con la mia realtà interna e con quella esterna.
Ricordo ad un certo punto, con tristezza, l’impeto con cui nel gruppo è piombato il solito spietato “giudizio” di cui a quanto pare non si riesce proprio a fare a meno. La vittima prescelta esprimeva una sofferenza che osservavo da lontano, mentre mi interrogavo sul senso di tutto questo in un contesto di formazione di counseling relazionale. Non volevo essere una spettatrice inutile, volevo annientare quello che sporcava il mio ideale di gruppo, quindi ho espresso subito in privato con toni duri il mio disappunto e la mia indignazione di fronte a quell’atteggiamento poco nobile. Volevo non vedere il giudizio mio negli altri, reprimerlo. Poi è arrivato il modo in cui era utile affrontare il problema, trasformandolo in fonte di ispirazione per un lavoro su se stessi, accuratamente preparato da chi conduceva il gruppo. Senza alcun accenno o riferimento alle dinamiche relazionali che si stavano mettendo in atto, viene proposto il Role playing per mettere in scena una dinamica famigliare. Guarda caso protagonista e attori della scena erano proprio le persone coinvolte nel meccanismo relazionale annodato, tra cui la sottoscritta. Il gioco si sviluppava e terminava con pianti e abbracci tra la vittima e i carnefici e io che avevo rappresento in maniera esemplare “il giudice” e “il giudizio”.
Attingere da quello che si ha difronte, restare sul “qui e ora”, far emergere le emozioni e le reazioni anche quelle che non vogliamo conoscere: solo tutto ciò aveva consentito di vedere e trasformare ciò che faceva male.
La location successiva lungo il mio cammino è l’Ospedale San Giovanni a Torino dove si è svolto l’evento Sarastus, durante il quale io e i compagni di Artemisia eravamo guide e accompagnatori dei partecipanti. Il convegno trattava Salute e benessere, Educazione, Arte, Economia e società in una visione globale e olistica. Da quell’esperienza mi sono portata a casa : il seminario “la paura della morte” che Arianna, giusto perchè dovevo uscire dalla zona comfort della fase precedente, ha deciso che dovevo ascoltare…; la febbre, che non mi ha permesso di arrivare fino alla fine dell’ultima giornata; il tutto accompagnato dalla musica dolcissima del pianista che personalizzava i brani guardandoti negli occhi, riempendoli prima di imbarazzo, poi di lacrime, poi di tenerezza e infine di pace.
Intanto, la scuola Artemisia era giunta ad Ivrea, la mia città natale, e questo rendeva sempre più sicuro il mio cammino e aiutava il ricongiungimento delle mie parti da ricucire. L’approccio olistico della scuola collocava le prime lezioni di Ivrea nell’ambito della ricerca interiore, psicologica (l’ego, il carattere, l’ombra..) e spirituale (il divino, l’essenza..). Gli esercizi con il corpo, con il respiro, il silenzio, la meditazione sono stati sia uno spunto per scegliere di voler poi approfondire anche fuori da lì un percorso di contatto con me e con il centro della mia coscienza; sia un profondo anelito a ritrovare, ogni volta che riuscivo, quello stato di benessere e di unità che avevo conosciuto. In quel periodo la mia preoccupazione di non riconoscermi in una fede o in una religione, mi rendeva incompiuta e le mie letture riguardo ai rischi di sviluppare sintomatologie di vario tipo di fronte all’assenza di una propria spiritualità, mi affannavano in una ricerca disperata di una divinità da venerare. Ovviamente, ancora oggi, il mio trambusto di indagine spirituale non si è ancora concluso; in quelle lezioni però ero riuscita a portare le mie paure, la mia diversità, e a comprendere che la direzione di questa ricerca doveva essere ribaltata dal fuori al dentro, dall’esterno all’interno di me. E la meraviglia era che sarebbe stato l’incontro con me a portarmi in visita il Divino, la beatitudine, la pace… Ho compreso che intraprendere un percorso spirituale non vuole dire rinnegare o abbandonare la dimensione finita, ma impegnarsi affinchè questa dimensione finita risplenda di luce e bellezza. Essere spirituali oggi per me significa anche portare nella realtà terrena di tutti i giorni i valori che scopro in me guardando verso l’alto: verità, bellezza, giustizia, lealtà, accettazione, serenità, gioia e amore.
E ho compreso che aiutare se stessi e gli altri a fare questo, significa avere una visione e un compito divini: ecco allora che la scelta del counseling, oltre che dare continuità alla mia formazione, alla mia crescita personale e professionale, ai miei valori, si configurava anche in una cornice spirituale e assumeva sempre di più un senso profondo.
Dentro di me io ero e potevo tutto, e questo mi caricava tanto di gioia! Ma, visto come io sono fatta, anche di molta ansia, soprattutto perchè mi restituiva una enorme responsabilità verso la possibilità di costruire una mia vita. Per affrontare e gestire l’insofferenza di fronte a ciò che io potevo generare, per non farmi fagocitare dalle mie emozioni, cammin facendo comprendevo sempre di più l’importanza di stare nel “qui e ora”: certo è che il mio “qui e ora” è proprio tutto mio, e non può e forse non potrà mai forse diventare quello di una persona illuminata…Di fatto la consapevolezza e l’impegno nel tempo mi hanno davvero portata a preferire e a scegliere di restare nel momento presente, e quindi a migliorare le mie giornate e le mie nottate insonni, evitando sempre di più di restare aggrappata e immobile di fronte ai pensieri della mente, agli ostacoli delle paure e delle ansie per il dopo, per l’indomani, per il futuro… E come i bambini in punta allo scivolo che inizialmente impreparati, rigidi ed esitanti restano immobili, poi quando imparano spingono via quelli che hanno davanti per la loro fretta di sentire il loro corpo scivolare e fluire nell’aria, così anche io sempre di più mi sentivo allenata ad allontanare tutto ciò che ostacolava lo scorrere della mia vita.
Nel tempo, ero sempre più decisa a sfruttare a pieno l’opportunità che la scuola mi stava donando, pronta a oltrepassare ostacoli e limiti, che trovavo dentro di me e proiettavo sulle situazioni e sulle persone che incontravo, a scuola e nel mondo. Avendo imparato che le relazioni costituiscono un potente rivelatore delle nostre ombre, capivo sempre di più che quando le circostanze risultavano scomode e antipatiche, potevano diventare un’opportunità importante per accedere a frammenti di me che stavo faticando a vedere. Le parti della mia ombra, non essendo nè buone nè cattive ma semplicemente facce della mia umanità, hanno tutte la funzione di mostrarmi chi sono. Ed è la relazione lo specchio nel quale vedo me stessa, tutta la vita è un movimento di relazioni, non esiste nulla che non sia legata a qualcos’altro. Anche quando sono sola, sono in una relazione di rete con me e con gli altri presenti nelle parti di me.
Nella scuola di counseling relazionale, ho incontrato persone che mi sono piaciute molto, poco, per niente, che ho amato, stimato, invidiato, mal sopportato. Tante persone che mi hanno commossa, fatto piangere e sorridere. Seduta in classe ho potuto fermarmi e interrogare me stessa su ogni pensiero ed emozione che i compagni e l’insegnante mi suscitavano, poi ho focalizzato l’attenzione dentro, sulle mie reazioni emotive “spropositate” perchè erano proprio quelle che mi facevano da specchio, quindi le più utili da considerare per conoscere e migliorare me. E solo quando riuscivo a riappropriarmi delle mie ombre che il contesto mi rifletteva, riuscivo poi ad accedere fino in fondo alle mie parti luminose, alle mie risorse.
E visto che il paradosso dell’ombra è quello che quanto più neghiamo e rimuoviamo, tanto più queste parti scisse riemergono in maniera incontrollata, ho incontrato per es. “con chiarezza” nella mia ombra “l’avarizia”, ben nascosta dietro al mio modo di essere, alla scelta del mio lavoro, al mio voler sembrare generosa, buona e altruista a tutti i costi, al punto tale da circondarmi spesso di persone che mi deludevano perchè strategicamente avare . Credo che forse la cultura meridionale di mio padre mi abbia forzatamente indotto alla gentilezza estrema, senza confini protettivi, quella che si rivolge agli altri anche a discapito di se stessi, quella bellissima forma di calore e accoglienza tipica dei paesi del sud che però in alcuni casi, non in tutti, reprime emozioni e bisogni personali da mettere in secondo piano per fare bella figura.
Nella mia ombra ho visto anche l’invidia, per esempio per il coraggio in ambito professionale, legata forse alla mia scarsa autostima, alla mia insicurezza. E, visto che sentivo questo aspetto attirarmi in modo esagerato, ho osservato, con l’aiuto di Arianna, la mia proiezione, e ho visto che quel coraggio era anche mio, ma non essendo sempre riuscita a vederlo, a riconoscerlo e a giocarmelo come e dove avrei realmente potuto, quel coraggio chiamava e chiama forte la mia attenzione..
Nell’ombra poi ho visto localizzata anche la mia creatività, non so bene ancora da cosa o da chi annientata, è certo però che il tentativo di trasformarla in opportunità di realizzazione e di successo, e la frustrazione di non riuscire ad individuare il canale mio personale in cui far confluire l’energia creativa che mi spinge, sono ancora faticosamente sopportabili. Intanto, fino ad ora, le mie proiezioni artistiche-creative si sono direzionate verso mio marito e mia figlia, di cui invidio il talento nel disegno e nella pittura. E nell’ attesa di veder emergere anche dalle mie mani, o dalla mia voce, o dal mio corpo, o chissà da quale parte di me, il mio talento, mi complimento con me (perchè questo mi ha insegnato la scuola) per la mia “arte di arrangiarmi nel mondo con quello che ho”, perchè questa mia capacità è davvero un’ arte.
Credo sia difficile e inopportuno cercare io verità assolute rispetto alle origini delle mie ombre, ma a scuola ho imparato che è invece funzionale il tentativo di vederle, di riconoscerle per poi integrarle con il mondo reale in cui vivo. E laddove possibile, trasformarle: “l’avarizia” in capacità di mettere confini all’ostentata gentilezza, per rispettare me stessa e riuscire poi così a donare gratuitamente; “l’invidia” in determinazione verso il raggiungimento coraggioso dei miei obiettivi e la realizzazione dei miei progetti; “la creatività” nascosta in creatività manifesta e spontanea.
La proiezione negli altri delle mie qualità e delle mie difficoltà, non implica ovviamente che le persone non abbiano realmente quelle risorse e quei limiti; non è detto quindi che io sia tenuta a rimanere con chi non funziona per me, sul mio cammino, solamente per affrontare e stare a tutti i costi con le mie parti spiacevoli. Per esempio, sapendo che la mia rabbia che diventa aggressività fa sì che io incontri spesso persone arrabbiate e aggressive, non voglio dare all’ombra il potere di trattenermi, ma sono certa essere assolutamente utile in alcuni momenti scegliere di allontanarmi. Questo passaggio necessario, credo sia in parte quello che a scuola viene definito “mettere i confini”. Guarda caso la parola confine ha sempre risuonato male dentro di me.., la associo a sensazioni di claustrofobica chiusura. Ma avendo imparato a vedermi quando sono invadente, quando permetto agli altri di invadermi e soprattutto a sentire l’invadenza delle mie emozioni, i confini li sento vitali e necessari.
Procedendo il mio percorso scolastico mi addentro così nell’esperienza nodale del counseling, quella dei colloqui. Nel mio primo colloquio da counselor a scuola, una compagna mi ha portato il suo conflitto con il lavoro e il suo desiderio di trasferimento e io….anche. Il suo problema permetteva, alla mia mente di muoversi in un terreno conosciuto, e al mio corpo tremante di rilassarsi e di smetterla di muoversi continuamente sulla sedia.
In ogni colloquio che seguiva scoprivo poi che il cliente portava sempre qualcosa di me.
Già dei miei primi colloqui ricordo la meraviglia per l’estasi che provavo quando riuscivo ad entrare davvero in ascolto della persona che avevo di fronte; tempi fatti di attimi sacri in cui tutte le finestre dei sensi prima si spalancavano poi si richiudevano; luoghi in cui mi addentravo con quel rispetto che avrei voluto per me, e mi perdevo per acquisire informazioni utili per essere utile.
Alternando continuamente l’uso necessario della mente, all’allontanamento necessario della stessa mente, si creava istantaneamente un vuoto pronto ad ospitare. E più lo spazio era vuoto più l’ospite si sentiva libero di entrarci.
C’era magia nell’incontro: come se quel momento di contatto favorisse la connessione tra la mia anima e gli altri nel mondo, rispecchiando l’unità originaria.
Andando fino in fondo a volte diventava importante e utile “sentire” e “far sentire”; poi, spostare e far spostare l’attenzione sul corpo per non perdersi, e appena possibile cercare e pronunciare le parole più delicate o più potenti per aiutare forse a riemergere con qualcosa in più e di diverso da prima.
Ho sperimentato l’imbarazzo del mio silenzio, la difficoltà del silenzio dell’altro, l’incapacità di centrarsi (mia e dell’altro) dopo essersi persi nelle parole. Nella relazione tra me e cliente le attenzioni saltellavano da una parte all’altra, in modo che l’ascolto vero tenesse conto di tutto il materiale psichico, emotivo e sensoriale che emergeva. I colloqui che ho fatto davanti a vari osservatori mi hanno creato una forte ansia ma era la performance davanti ad Arianna a farmi sentire le mani ghiacciate e le guance bollenti. E dovevo pure dimostrare di riuscire a tenere i piedi per terra! Occorre tanta tenacia nel voler affrontare tutto quell’imbarazzo, e quando mi mancava il coraggio, l’imposizione a buttarmi in quel mare senza saper nuotare era stata necessaria e utile. Le difficoltà nei colloqui con i compagni di classe erano differenti da quelle che ho poi incontrato negli altri contesti del mio tirocinio: senza osservatori sentivo piano piano fluire il processo di relazione di aiuto. In quel contesto trasportavo anche istintivamente la mia lunga esperienza di educatrice che da un lato mi dava sicurezza invitandomi a muovermi facilmente in un campo conosciuto, quello relazionale, dall’altro mi confondeva e mi portava continuamente ad interrogarmi e a rispettare le differenze tra le due professionalità. La paura di fare pasticci mescolando metodi, strumenti e obiettivi è riuscita ad essere sedata dal mio supervisor: come sempre si trattava di accogliere tutto ciò che era funzionale, senza sacrificare quelle parti di me che invece andavano viste come risorse da integrare con tutto quello che avevo imparato del counseling. E tra le tante differenti ricchezze che hanno aggiunto valore al senso di aiuto e di sostegno della persona, quella che più diventava centrale ed importante era il principio della “responsabilità”. Come per me l’opportunità della scuola trasferiva nella mia persona tutta la responsabilità e la scelta di creare qualcosa di più e qualcosa di meglio nella mia vita, così anche il percorso di counseling per i clienti andava visto come occasione di cambiamento e di trasformazione, da costruire passo a passo attraverso una scelta attiva e consapevole.
Il fatto di sentirmi più a mio agio senza gli occhi puntati degli osservatori e di Arianna non mi risparmiava però da dubbi e paure che fanno parte di me e si facevano sentire quindi anche se nessuno che mi guardava. Per es. dopo due colloqui con una persona che conoscevo e che aveva già fatto un lungo percorso di psicoterapia tanti anni prima, avevo l’ansia della prestazione, sono entrata in assoluta confluenza, ho avuto momenti di silenzio da cui non sapevo come uscire e in seguito ho provato una sensazione di grande agitazione, quasi panico. Di fronte alle sue pretese rabbiose e provocatorie del tipo “e quindi adesso mi dici cosa devo fare!” oppure “non è cambiato proprio niente”, ho avuto paura della sua aggressività, della sua svalutazione verso quei colloqui. La supervisione di Arianna mi aveva poi ricondotta alla realtà: con grande competenza e tanta delicatezza, senza però risparmiarmi l’impatto deciso e potente delle sue osservazioni, era riuscita a rimettermi al sicuro.
Lo stesso impatto ricevuto l’avevo fatto mio, interiorizzato fino in fondo e riprodotto poi tale e quale con la persona che avevo temuto: il setting dei colloqui successivi e il registro della comunicazione nella relazione, si erano magicamente e completamente trasformati. Ci sono poi colloqui che ricordo con gioia, per es. quello che ho fatto con un cliente maschio bellissimo che non conoscevo prima: ad un certo punto, al sopraggiungere di una vampata di calore, sono riuscita (spero) a nascondere il rossore che non volevo venisse frainteso, alzandomi dalla sedia e fingendo di dover controllare il telefono.. Anche il colloquio improvvisato in un bar pasticceria, perchè il servizio era chiuso, mi ha lasciato un ricordo di grande empatia e spontaneità che ha portato davvero un cambiamento nella relazione con la signora e un buon risultato nel suo percorso.
Per costruire il mio tirocinio ho scelto di attingere ancora da me e sempre per dare continuità a quelle mie parti da ritrovare per arricchire, e magari anche per poi un giorno andare oltre, ho scelto l’ambito sociale. L’organizzazione e la gestione dei tirocini mi hanno resa realmente protagonista del mio percorso esperienziale di crescita durante il quale Arianna mi dimostrava fiducia e disponibilità che mi consentivano di procedere con sicurezza. Ho sempre scelto comunque di non trascurare mai il confronto e il supporto di Arianna anche perché ritengo che nel lavoro di aiuto alla persona, in ogni professione che dedica cura e sostegno ad altri, il confronto, la supervisione e la formazione continua, siano un dovere, non solo un diritto. Non si può e non si deve restare soli quando si lavora con le persone.
Parte del mio tirocinio l’ho svolta in un gruppo di mutuo auto aiuto costituito da famiglie adottive dove ho osservato il ruolo del counselor-facilitatore. L’altra parte del tirocinio mi ha vista partecipe della costruzione di un progetto con gli operatori del Consorzio dei Servizi Sociali di Caluso. Le persone inviatemi ai colloqui dalle assistenti sociali, erano conosciute e assistite dal CISSAC per difficoltà economiche. I colloqui avevano un duplice obiettivo, da una parte di verificare le loro risorse e il loro possibile coinvolgimento in una attività lavorativa di sostegno alle persone anziane del territorio; dall’altra di offrire loro un’ opportunità di aiuto per il disagio della situazione personale, sociale ed economica.
Nel gruppo di mutuo auto aiuto del Consorzio InRETE di Ivrea, ho assistito in silenzio alle serate di incontro durante le quali mi sono resa conto di quanto la comunicazione sia attiva anche senza l’uso delle parole. Era importante per me entrare con rispetto nel gruppo di persone che raccontavano le loro storie in mia presenza, e volevo, nonostante il mio ruolo di osservatrice e nel rispetto di tutto il contesto, poter comunque trovare un valore aggiunto e utile alla mia presenza e partecipazione. Quindi cercavo di cogliere con attenzione e senza forzature tutte quelle opportunità di sguardi e di espressioni che mi permettevano di trasmettere e di ricevere, in una relazione fatta di vicinanza e condivisione. La figura del counselor/facilitatore, con la sua grande capacità di stare nella situazione e la sua esperienza decennale con il gruppo interessato, mi ha permesso di cogliere, molti di quegli aspetti che sono stati teorizzati durante il corso per facilitatore. Ma in particolar modo mi sono portata via la capacità di rispettare e di aver fiducia nel processo di confronto tra chi vive la stessa esperienza, senza l’esigenza e la premura di proporre o imporre punti di vista o soluzioni che spesso neanche vengono richieste.
Per il mio modo di funzionare, questo mi è servito molto anche per chiedere a me stessa di imparare a mettere un po’ in pace il mio bisogno impellente di dire la mia verità, e a confermare che dal silenzio agito da parte del professionista, può scaturire realmente tanto materiale prezioso.
I colloqui che ho svolto invece con le persone inviatemi dalle Assistenti Sociali hanno rappresentato l’inizio del mio allenamento in questa disciplina interessante, dove gli imprevisti e gli ostacoli diventano materiale di lavoro. Alcune persone arrivate da me hanno scelto di raccontarmi la loro storia per essere aiutate in qualcosa che mi hanno portato con le loro lacrime; altre invece hanno deciso di usare lo spazio di colloquio solamente per dimostrarmi la loro idoneità al progetto di lavoro per le quali le Assistenti Sociali volevano coinvolgerle. E’ stato mio dovere accogliere ciò che mi arrivava, senza forzature, e una volta spiegata l’opportunità del percorso che stavo offrendo terminava lì la mia responsabilità. Ovviamente laddove le persone invece hanno scelto di portare se stesse e sono tornate più volte, ho potuto sia approfondire la mia esercitazione, sia rafforzare entusiasmo e sicurezze.
Rispetto agli strumenti del counseling durante i colloqui svolti ho utilizzato molto la riformulazione: mi piace molto impegnarmi nel restituire le parole dell’altro all’altro, colgo la loro meraviglia quando sentono quello che hanno detto come se lo vedessero, come se si vedessero per la prima volta. Ho utilizzato anche lo strumento dell’identificazione dove invece la rilettura non era necessaria perchè la persona veniva condotta a sentire da sola il fluire del dialogo tra le sue parti che da quel momento avrebbero cominciato per la prima volta a parlarsi.. Il sociogenogramma, utilizzato e apprezzato, è uno strumento che sicuramente andrò ad approfondire. Il grafo invece non è uno strumento che sento mio, sembra richiedere e pretendere interpretazione di cui non sento di essere competente.
Nell’incontro con le persone ho sperimentato la diversità dei linguaggi, delle culture, dei valori, delle emozioni, e ogni volta mi sentivo nutrita di umanità.
E da questo incontro umano partirei per entrare nella fase finale, per chiudere…per iniziare a chiudere, non ce la faccio, lo so.. è chiaro, faccio fatica..eccola qui quella difficoltà su cui dovrò ancora lavorare: quella di imparare a chiudere. Perchè laddove c’è relazione non sono ancora tanto capace di mettere quei confini necessari e funzionali.
Allora per temporeggiare ancora un attimo, mi viene più facile, prima di andare via, sostare ancora un pò sulla porta e, con fare seduttivo, dire che cosa porto con me.
L’umanità, appunto, tanta, quella vera, quella nuda, viscerale, prorompente, quella che non ha bisogno di vedersi tutti i giorni perchè ti entra dentro, come l’amore vero.
Le facce, tante ma non troppe, ne vorrei ancora, ognuna mi ha svelato e regalato un pezzo di me, e se sto in silenzio e osservo le facce che mi porto.. Wow, tutte le emozioni scintillano.. I compagni e le compagne di avventura, tantissimi, i loro imbarazzi e le loro sicurezze.. quelli a cui mi sono presentata 100 volte, quelli che ho visto piangere e quelli che mi hanno permesso di piangere..
Porto con me il potere delle parole, quelle da portarsi appresso nella vita di tutti i giorni: per es. responsabilità, risorse, lamentela, vittima, accettazione, perdono, sostare, sentire, ego, fluire, potere, scelta, specchio, lasciare andare, non lo so, ecc..ecc..e tanti eccetera..
Le slides, lo scorrere infinito di concetti importanti da afferrare, da annotare, strumenti per conoscere, per imparare, per nuove intuizioni, consapevolezze, ragionamenti, riflessioni.. Le slides che rimanevano ferme sul muro per dare precedenza alle emozioni, alle suggestioni, ai turbamenti.
Il setting settimanale: le scarpe da togliere, la stanza contenitore, la luce giusta, i taralli da strafogare, la cena che mi portavo solo io, le tisane, la betulla in giardino… Patrizia, custode del luogo sacro.
Le sfide, continue, impellenti di misurarmi prima in classe poi nel mondo per sentirmi davvero parte di esso, l’urgenza di mostrarmi, di farmi conoscere di lasciare un segno e un senso sulla strada che percorro, con la consapevolezza oggi che anche se la strada non sarà una sola, si può non perdersi…
E poi porto via con me, per forza e per amore la mia famiglia, Marco e Sofia, che ringrazio perchè capaci di godersi felici la mia assenza durante le lezioni, liberi dal mio stressante controllo, ognuno a farsi gli affari propri al computer o alla tv… Marco, lo ringrazio ancora per aver accettato di fare un pezzo di percorso con me, affidandosi con umiltà e coraggio ad Arianna, che gli ha permesso di rinascere e di stravolgere per sempre il senso della sua vita. Sofia, la ringrazio perchè ha scelto di leggere prima e di sentirmi leggere dopo in classe queste parole, portando così per un momento anche se stessa nella scuola Artemisia.
Mannaggia che magone ora …che devo ringraziare e salutare Arianna…
Avviandomi verso l’uscita ringrazio Arianna e depongo nelle sue mani per sempre le chiavi delle mie prigioni, che ho scoperto avere io quando gentilmente lei mi ha chiesto di estrarle dalle mie tasche.
Ringrazio così Arianna, per i suoi doni di libertà e di liberazione che ho voglia di assaporare; testimone di abbondanza e di gioia cedute a tutti con amore, nella sua staffetta quotidiana; messaggera di speranze e di opportunità regalate dall’universo a chi si apre al mondo e accetta se stesso per la meraviglia della sua unicità.
E poi ringrazio soprattutto me, per non aver mai mollato quella strada sicura che mi avrebbe permesso di amarmi fino in fondo.
M.V.