Istituto Artemisia

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Il suo nome era Pezzettino. Tutti i suoi amici erano grandi e coraggiosi e facevano cose meravigliose. Lui invece era piccolo e di sicuro era un pezzetto di qualcuno, pensava, un pezzetto mancante.

Molto spesso si chiedeva di chi fosse il pezzettino, e un bel giorno decise di scoprirlo.

 

«Scusa…» chiese allora a Quello-Che-Corre,

«Per caso sono un tuo pezzettino?»

«Come potrei correre se mi mancasse un pezzetto?»

rispose Quello-Che-Corre piuttosto sorpreso.

 

«Sono un tuo pezzettino?» domandò a Quello-Forte.

«Potrei essere così forte se mi mancasse un pezzetto?»

fu la risposta che ottenne.

 

E quando Quello-che-Nuota emerse dalle onde, Pezzettino gli rivolse la stessa domanda.

«Non potrei nuotare mi mancasse un pezzettino»

rispose Quello-Che-Nuota rituffandosi sott’acqua.

 

«Ehi, tu lassù!» gridò Pezzettino quando ebbe raggiunto Quello-Che-Vive-Sulle-Montagne.

«Sono un tuo pezzetto?»

Lui scoppiò a ridere: «Potrei arrampicarmi se mi mancasse un pezzetto?» disse.

 

Pezzettino chiese la stessa cosa a Quello-Che-Vola, ma la risposta fu identica.

 

Alla fine Pezzettino andò da Quello-Saggio che viveva in una grotta. «Per caso, sono un tuo pezzetto?» domandò.

«Credi che potrei essere così saggio se mi mancasse un pezzetto?»

«Ma io devo essere di qualcuno!» gridò Pezzettino.

«Come faccio a scoprirlo?»

«Vai all’isola Chi Sono» rispose Quello-saggio.

 

Il giorno dopo Pezzettino salpò con la sua barchetta.

Dopo un viaggio lungo e burrascoso, arrivò all’Isola Chi Sono.

Era stanco e bagnato.

Che strano! L’isola era un ammasso di pietre.

Non un albero, non un filo d’erba. Ma soprattutto, nessuna creatura vivente.

 

Pezzettino camminò e camminò, su e giù, finché, esausto si inciampò e cadde…

… e si ruppe in tanti pezzetti.

Quello-Saggio aveva ragione! Pezzettino adesso sapeva che anche lui, come tutti, era fatto di tanti piccoli pezzi.

Si ricompose e quando fu sicuro che non mancasse neanche uno dei suoi pezzetti, tornò alla barca.

Remò tutta la notte per arrivare a casa prima possibile.

 

Tutti i suoi amici lo stavano aspettando.

«Io sono me stesso» gridò pezzettino tutto contento.

I suoi amici non erano sicuri di aver capito quello che Pezzettino intendesse dire, però sembrava felice.

E così, si sentirono felici anche loro.

 

Talvolta dall’infinito flusso della nostra fantasia, all’improvviso emerge qualche cosa di inaspettato, che sembra contenere una forma, un significato, un senso di riconoscimento.

Chi non si è trovato ad interrogarsi su chi siamo e su quale sia la nostra esatta collocazione nel mondo? Proprio come pezzettino sono sempre stata alla ricerca della mia identità, della mia natura, alla ricerca del mio IO, sentendomi piccola e insignificante rispetto al mondo esterno, e ciò non era certo dato dal mio essere oggettivamente piccola.

Il profondo sentimento di insicurezza ed inferiorità che provavo non era dato dal modo in cui mi vedevo. Ho pochissimi ricordi di quando ero piccola, ma il dolore lo ricordo perfettamente. Ho sempre attribuito l’alcolismo di mia mamma ad una mia colpa, mi colpevolizzavo pensando che il suo amore per me non era abbastanza grande da permetterle di mantenere quella promessa “da domani smetto”, eppure cercavo di essere la figlia perfetta, di non aggiungere altro dolore alla sua sofferenza. Non uscivo e stavo lì chiusa in casa mentre lei dormiva, ad aspettare che mi vedesse, ma non bastava.

Solo dopo trent’anni è riuscita a smettere, e in quel preciso istante sono andata in mille pezzi, mi sono concessa di piangere, di arrabbiarmi. Non mi riconoscevo più: proprio ora che pareva tutto risolto, proprio ora che il mio sorriso poteva non essere una maschera, riuscivo solo a piangere. Mi sentivo come un vaso scoperchiato, dove tutto ciò che era stato in silenzio poteva uscire senza controllo, non avevo più nessun potere sul mio sentire, non avevo più nessun controllo su di me.

Anche se pareva tutto così chiaro alla mia mente, solo dopo anni di psicoterapia mi sono resa conto che la mia rabbia era rivolta a mio padre, la persona che non si è mai accorta delle dipendenze di mia mamma. Attribuivo a lui la colpa di non aver avuto un’infanzia, di non averci difeso dal dolore e di non avermi mai visto per ciò che sono.

La persona che quando avevo sei anni mi ha dimenticato in macelleria tornando a casa solo con la mia cartella, una cicatrice che si aggiunge alle altre: chi si dimentica di un figlio?

Colui che ai miei saggi di danza faceva il video a quella con il tutù rosso dicendomi “che brava che sei stata, ti stava bene il rosso”, peccato che io avessi il tutù nero.

La sua distrazione era fonte di risate per amici e parenti, ma per me era l’ennesima conferma che lui non mi vedeva.

Colui che era solo capace di dirmi “ma perché, tanto non sai farlo”. Ho passato una vita ad ottenere risultati, anche buoni risultati, ma quanto l’ho fatto per me? Penso zero, e non mi sono mai gustata né la strada per raggiungerli, né tanto meno i successi.

Solo quando ho attraversato la rabbia e il dolore ho capito quanto cercassi di fare solo per dimostrare quanto valessi, quanto la mia vita fosse una ricerca continua di approvazione e di amore.

Ho pianto, ho toccato il fondo, non vedevo la luce e l’unica cosa che desideravo era non svegliarmi, perché il mattino era fatto di dolore e rabbia, mi sentivo soffocare tanto era forte la loro presenza.

La rabbia per non aver avuto un’infanzia, per non essere stata amata, o meglio, non amata come volevo, perché di amore a loro modo me ne hanno dato, e tanto.

La bambina che aveva tenuto tutto dentro era lì a reclamare i suoi bisogni, ma oramai aveva quarant’anni, quella piccola bambina non vista, pensava davvero di vomitare tutto addosso agli altri e di farli cambiare? Se ci penso ora mi domando, avrei potuto affrontare la cosa in altro modo? NO, era il mio modo, era l’unico modo che conoscevo. Ho ferito? si penso di sì, all’improvviso si sono trovati una figlia che urlava e faceva valere le sue ragioni, che avrebbe voluto ogni giorno spaccare piatti al muro, e dopo anni quando si ritrova ad affrontare nuovamente la dipendenza, ma questa volta da gioco e di entrambi, altra rabbia, altre crisi isteriche, e dentro di me la vocina che continuava a dirmi, “ma veramente ti stanno ancora ferendo? Ma davvero continuano ad aggiungere dolore, eppure non dovrebbero difenderti i genitori?”.

Ho lavorato sui confini, sulla rabbia, sull’accettazione e sul PERDONO.

Ho perdonato mia mamma: soffriva e non aveva strumenti, il suo modo di superare la depressione era il vino, ha fatto tutto il possibile per amarmi come poteva. Ho perdonato mio padre, che continuerà a non vedermi per quello che sono, ed ho perdonato me stessa per essere crollata, per essere finita in pezzi, e mi e li ringrazio ogni giorno per la persona che sono, perché ora sono esattamente IO e sulla strada che voglio percorrere, gustandomi i successi e i fallimenti.

Quel dolore si è trasformato.

In Birmania ho sentito il cambiamento, uno dei tanti viaggi fatti da sola, ero in un tempio con il vento e il rumore delle campanelle, lì ad ascoltare e ad ascoltarmi, la solitudine che a ogni viaggio veniva come me accompagnata dal male allo stomaco non c’era, c’ero solo IO, non c’era nessun vuoto dentro di me, mi bastavo, e da quel momento non mi sono mai più sentita sola. Dopo una vita alla continua ricerca per trovare il modo di farmi amare,  mi sono rotta in mille pezzi per poi piano piano rimettermi insieme, per mettere insieme tutte le mie parti, per  TROVARMI e AMARMI.

E non a caso, perché sappiamo che il caso non esiste,  dopo questo lungo viaggio, ho intrapreso quello in Artemisia, dove ho messo luce sulla strada fatta, ho dato un nome a tutte le fasi passate nella psicoterapia, era un po’ come avere un album di figurine e completarlo a ogni lezione, Le maschere, uff quante, per me era sempre carnevale evidentemente… la triade ce l’ho… il giudizio, anche… la rabbia, le ombre, sempre pronte e farsi palesi nei momenti di debolezza, ma è bello vederle, riconoscerle e accettarle. Potrei guardare questo album completo con tutte le mie parti e definirmi un “gran casino” e invece mi dico brava, brava per la strada fatta, brava per la strada che continui a percorrere.

In Artemisia, ho capito cosa voglio farne di tutto questo viaggio, ho capito l’importanza della strada fatta, posso dire di aver una cassetta degli attrezzi bella piena, di aver assaporato  l’empatia, la condivisione, il non giudizio, l’accettazione, l’umiltà, la generosità, potrei continuare l’elenco perché ogni persona incontrata mi ha donato qualche cosa, ma come a ogni fine lezione… cosa mi porto via?

L’amicizia,  perché ho trovato amici, tanti amici che hanno riempito il mio cuore di amore, e li ringrazio per esserci sempre, in particolare un grazie enorme a Federico, Irina, Laura, Fiammetta, Bea, Marco, Paolo, Lorena, Giulia, Concetta.

 

Grazie a Simona, che ammiro per mille cose, (state pensando all’altezza?) anche, ma il suo modo di comunicare è invidiabile, ma proprio qui ho imparato a trasformare l’invidia in ammirazione.  GRAZIE!

 

Arianna, non trovo le parole… ma so che anche nel silenzio, tu sai…

gratitudine infinita… GRAZIE!

 

Queste parole le ho fatte un po’ mie…

 

Non sentirti in colpa se provi paura, tristezza o rabbia. Non si ferma la pioggia chiedendole di fermarsi. Certe volte bisogna guardarla cadere, lasciarla che ci inzuppi. Ma prima o poi smette di piovere.

Ricordati che per quanto ti bagni non sei la pioggia.

Non sei le sensazioni che hai nella testa.

Sei una persona che vive l’esperienza della tempesta.

Anche se la tempesta ti butta a terra, ti rialzerai.

Tieni duro.