Tesi di Diploma Artemisia – di S.G.
Scrivere questa tesi è stato terapeutico. Sono oramai passati quasi tre anni e mi sono avventurata nel counseling perché avevo bisogno di fare il punto della situazione. Quel punto che pareva un termine di confine, oggi è diventato un “due punti”: il discorso continua fluido e narrante, un complemento oggetto da raccontare.
Ho avuto molti momenti nei quali ripensare il mondo e me stessa. Il senso di disorientamento, spesso anche di vuoto, che pervadeva i miei giorni (ancor più le mie notti), era il segno che avevo perso la bussola e mi ritrovavo di nuovo senza direzione: sì, con le risorse per camminare, e anche velocemente, ma non sapevo più verso dove. Avevo i mezzi per vivere, ma non i fini per vivere.
Mi capita di tornarci ancora sopra alla mia notte oscura, l’ho definita “depressione”, ma oggi non sono così sicura che di quello si sia trattato. E’ un termine che non mi corrisponde. Come dire “mi son presa l’influenza ma sono guarita”; presuppone che l’influenza non sia più con me. Invece, quel periodo profondissimo l’ho ancora in me, ma non mi sento depressa. Quindi, non fu depressione. Fu un inghiottitoio. Ecco, cosa fu. Che mi ha risucchiato in un silenzio assoluto e in un immenso spazio vuoto. Tutte le persone che hanno voluto incontrare Dio veramente, hanno sentito la necessità del deserto. Quello fu il mio deserto. E il deserto è un mezzo di vita che ha un effetto prepotente.
Fino a quel momento vivevo di una fede sostenuta da tanti aiuti, ma ho cominciato a sentire lontana anche quella. Una fede senza religione: ancora un mezzo ma non il fine. Il deserto è il tempo in cui si sperimenta la morte, dove scompare ogni collegamento con il passato e non si ha nulla di concreto da progettare per il futuro.
Ma non ho potuto capire subito, l’impatto è stato violento e necessitava di una cornice che anche gli altri potessero riconoscere: ti capisco…stai soffrendo…è colpa di… Io avevo bisogno di riconoscermi. L’assoluta solitudine del deserto era schiacciante e anonima, la malattia depressiva, invece condivisibile. Noi esseri umani siamo meravigliosi strateghi nelle tecniche di sopravvivenza.
Nonostante il deserto stesse per uccidermi, ho imparato ad amarlo. Ora lo conosco per quello che è stato e per quello che è: la mia opportunità. Il deserto è aperto e vuoto: solo lì, lontanissimo, si può rinascere come esseri coraggiosamente e personalmente pensanti. L’uomo che non incontra il deserto, non sa di esser nato nudo come ogni animale, solo e ignorante come ogni umano. A differenza di quella che si illude umanità, chi ha incontrato il deserto può sopravvivere alla desertificazione. L’impossibile incontro con l’Assenza.
Non ho conosciuto il mio valore finchè non ho fronteggiato il Nulla: la possibilità di non esistere più. Cercavo la comprensione, ho trovato il Mistero: la mia mente infantile e quella tribale.
Fino a un anno fa non lo avevo accolto davvero: sono rimasta alla fermata della macchina che fornisce spiegazioni mentali. Ma ora che il mio pensiero torna dal deserto, sento che è un momento significativo dove sono importanti l’ascolto, la sospensione della razionalità, il rispetto dell’ignoto e del simbolo: tutto questo ha il suo senso in sé concluso, non esprimibile senza impoverirlo. Nutrimento, però.
Durante gli ultimi intensissimi tre anni, le mie esperienze si sono amplificate con quelle meravigliosamente ricche dei miei compagni e compagne di viaggio: e sento di volervi bene e ringraziare con tutto il cuore per la fiducia che avete posto durante le condivisioni e i laboratori, aprendo al mondo quella parte di voi così intima e vulnerabile, che in genere proteggiamo con ogni artificio, anche la menzogna. Ma tra noi la menzogna non ha trovato posto, le energie che esprimevamo tutti insieme non lo hanno consentito, e sono fluiti limpidi come l’acqua i nostri dolori, i ricordi, i momenti di panico e di angoscia, e anche tante lacrime: ma nulla di irrisolto è rimasto in agguato negli angoli di questa stanza.
Un’immagine di Arianna mi fa immensamente sorridere: garbata e discreta, amorevole e gentile, ma combattiva e terribile come Fuffy, il grosso mastino a tre teste a guardia della pietra filosofale: non ci avrebbe mai lasciato uscire dalla porta in balìa dei nostri mostri, senza proteggerci da noi stessi.
Da tutti voi ho appreso non tanto ad accogliere, ma a lasciarmi accogliere: mi avete aiutato a condividere momenti che non avrei raccontato nemmeno sotto tortura, liberandomi così del loro ingombro inutile.
Ma devo dire che un altro viaggio meraviglioso è cominciato con il tirocinio: la scoperta di un nuovo universo in ogni incontro. Ancora mi meraviglio per aver scelto questo tipo di counseling, il counseling relazionale: io che con le relazioni di gruppo sono sempre stata un disastro e sono persino riuscita a far danni. Che non so mai cosa dire, non trovo niente di interessante, non faccio nulla di interessante, non sono spiritosa né goliardica, in gruppo non mi sento a mio agio e tendo a dare poca confidenza: se poi conosco poco, parliamo pure di chiusura totale e immediato desiderio di fuga.
Eppure sono finita qui, in mezzo a tutti voi. Ed è stato davvero un bel viaggio. Ecco il primo cliente, poi il secondo e il terzo, e via via si infittiva la schiera di persone che ha nutrito generosamente il mio tirocinio. Persone che hanno riposto il loro bene prezioso, la fiducia, nelle mie mani, aspirante counselor alle prime armi. Spinti dalla solitudine piuttosto che dalla tristezza, talvolta dalla confusione o dal semplice bisogno di essere ascoltati non solo da due orecchie ma anche da un’anima.
E io li guardavo stupita, piena di ammirazione per il loro coraggio di vivere nonostante i drammi che li avevano portati fino a me: gli abbandoni e i tradimenti, la perdita definitiva di una persona cara, la sottrazione dei figli da parte di un tribunale. La rabbia per un’ingiustizia subita e la collera verso la vita e verso se stessi. La paura della propria omosessualità mascherata dalla mancata accettazione degli altri. Quegli altri che infine erano loro.
Il timore di non farcela, di essere giudicati, di essere esclusi. La paura di ritrovarsi da soli.
Ecco allora emergere potente la mia opportunità: tornare nel deserto insieme a ognuno di loro, in quel deserto che non mi è più così scomodo. Ho spolverato la sabbia dai loro piedi e li ho accompagnati fino all’orizzonte nuovo. E qui, ognuno, proprio come capitò a me, ha inforcato gli occhiali della scoperta per guardare la propria vita.
Non sono certa di aver sempre soddisfatto le loro aspettative, di sicuro non ho risolto io i loro problemi: ma credo di aver agito nell’unico modo che mi è consentito: alimentare quella luce che splendeva in ciascuno.
Credo di aver fatto qualcosa per loro, ma non quanto loro hanno fatto per me. Ogni incontro, un pezzetto di consapevolezza in più. Un pezzo di senso che si aggiunge. E quale altro senso può avere la vita se non viverla per scoprirne il senso? Lasciarsi infondere in maniera totale dalla ricerca di questo significato. Il sentiero che diventa il viaggio e si confonde con la mèta.
Gli strumenti appresi sono importanti: la visualizzazione immaginativa, la sedia calda e quella vuota, il lavoro sulle motivazioni e l’osservazione del paraverbale; la teoria sulle proiezioni o la ferita narcisistica, piuttosto che una retroflessione, le quattro grandi paure di base, le forme egoiche e i blocchi, la confluenza eccetera eccetera.
Soprattutto all’inizio avevo il dubbio di come cominciare con il cliente, e agitata rispolveravo mentalmente quanto appreso durante le lezioni. Ma gli strumenti si affacciavano da soli al momento giusto. Quello che contava era stare ad ascoltare chi avevo davanti, con le orecchie, con gli occhi, attenta agli odori delle sue
energie e a quello che il mio di corpo captava e dove lo sentiva. E fidarmi di me. Ecco cosa mi hanno insegnato i miei clienti: la fiducia in me stessa. Come potevano loro fidarsi di me se io per prima non mi fidavo? Non sarebbe stato possibile lavorare in maniera efficace, e sono stata costretta a cominciare ad arrendermi. Poi l’ho desiderato con tutta me stessa, e mi sono arresa. E il lavoro insieme è diventato meraviglioso, trasformato in comunicazione profonda: arrivava proprio lì dove doveva arrivare, al nodo del dolore e dell’incomprensione, colpiva quella paura che impediva di andare avanti e vi insufflava quell’ossigeno cha mancava da troppo tempo.
Quando, guardando il cliente, vedo cambiare la luce degli occhi e della pelle, comprendo di essere sulla buona strada.
Così ho anche compreso come, con molte persone incontrate durante la mia esistenza, le relazioni che credevo interiori fossero in realtà solo esteriori. Crosta. Superficie. Porta chiusa.
Tutto questo cosa fatica, richiede impegno e dedizione, coerenza e un’attitudine rigorosa. E studio, libri e libri, per ampliare l’orizzonte e cercare confronti, a volte scontri e polemiche, disaccordi o abbracci di anime: il viaggio che continua e prende sempre più forma.
Partecipando ad uno stage, la mia strada è stata attraversata dallo studio dell’albero genealogico: qui per la prima volta ho respirato l’attimo in cui un filo conduttore legava il mio essere ai miei antenati, e ho sentito dentro qualcosa muoversi. Più precisamente: una scossa tellurica.
Qualcosa che percepivo ma alla quale non riuscivo a dare parola ha preso la forma di radici profonde avvinghiate alla terra e di rami protesi nel viaggio di un cielo immenso: ne è cominciato il disvelamento.
Ecco cosa mi è sempre piaciuto di Jung: la visione dinamica dell’uomo che lui riassume in due concetti: il divenire e la trasformazione. Una filosofia di vita che è strumento per sviluppare la propria anima secondo il processo dell’individuazione: per diventare individui completi bisogna superare i conflitti tra le varie parti che convivono in noi. Ho fatto mia una sua frase illuminante: “ Tutto quello che non risale alla coscienza, riviene sotto forma di destino”.
Ma nella coscienza non c’è solo il bagaglio delle esperienze personali, c’è un intero universo ereditato dai miei antenati. Da lì alla psicogenealogia il passo è stato breve: occuparsi di portare alla luce il legame tra il mio vissuto e il vissuto dei membri della mia famiglia. Approfondire questo argomento mi ha inevitabilmente portata a lasciarmi coinvolgere dall’affiorare degli archetipi, quelle immagini primordiali che sorgono nella coscienza solo quando l’esperienza personale li rende visibili. Lo stesso Jung sosteneva che i sistemi ereditari corrispondono alle situazioni umane che prevalgono dai tempi più antichi, una sorta di prototipo: l’archetipo, appunto. Ora sono abbastanza convinta che la mia memoria familiare sia composta da tutti i sentimenti, le emozioni e le sensazioni che hanno pervaso i membri della mia famiglia, vivi o deceduti, conosciuti oppure no. Questa memoria si è trasmessa in modo inconscio e sottile, ma non meno reale: è lei che induce la lealtà familiare inconscia e tutto quello che io, quale discendente, ho come missione da prendere in carico per ristabilire l’equilibrio della famiglia. E, quindi, della mia vita.
In particolare ho spesso in mente la bisnonna materna, andatasene quando avevo pochi anni, ma della quale ho impresse nei pensieri immagini vivissime e intimorenti: un viso rugoso scolpito dal sole di montagne severe e da una vita talvolta al limite della sopravvivenza. Se penso ad Anna non posso non vederla che così: lottatrice, selvatica, caparbia, aspra, animale. Amo tutto questo del suo ricordo. E sono fiera di trovare tracce di lei in me. Sì: fiera e in evoluzione. Trasmettere la vita è anche trasmettere un progetto: ho ereditato da lei, e dagli altri, molto più di ciò che è visibile. Scoprire le nostre radici mette in luce delle ricchezze familiari
positive che si trasformeranno in risorse; le negative ci aiuteranno a crescere, a liberare forze inconsce e ad abbandonare i fantasmi che ci ossessionano. E questo rispetto e non giudizio del destino dei nostri familiari, l’ho portato nel mio Counseling trasformandolo in transgenerazionale.
Vorrei riuscire nell’intento di comunicare al cliente che se un bambino nasce, se lui è nato, è perché a livello conscio o inconscio comunque è stato desiderato. Quindi non esiste un essere umano vivo non desiderato: siamo tutti in realtà desiderati su piani più sottili. Ho cominciato (e sottolineo: cominciato) a pensare che il mio scenario è stato predeterminato dai progetti – consci e inconsci – dei miei genitori, essendo loro stessi programmati dalle loro esperienze e dalla loro lealtà ai progetti dei loro genitori.
Quindi, mi sono messa in pari: non ci sono colpevoli né vittime, non c’è bisogno di perdonare nulla a nessuno: basta liberare le emozioni, i sentimenti, i fantasmi dal nostro armadio interiore. Il libero arbitrio è proporzionale alla mia presa di coscienza.
Per chiudere, voglio essere intellettualmente onesta fino in fondo e asserire che non vi è nulla di scientifico in tutto ciò. Rimango solo in ascolto dell’esperienza. In uno dei primi colloqui in cui vestivo i panni della cliente, Susanna mi fece da counselor e, allora ero ancora iscritta alla facoltà di psicologia, anzi di Scienze e Tecniche Psicologiche. Susanna mi chiese se consideravo la psicologia una scienza, e allora non esitai a rispondere di sì. Oggi ne sorrido da sola.
A questo punto so cosa mi hanno dato questi tre anni di counseling: il gusto della libertà. Per lungo tempo l’ho cercata negli altri: maestri, letture, corsi. Ammetto un certo disorientamento filosofico e religioso ma, se prima urgeva porvi rimedio bevendo anche certezze altrui, oggi ne provo un certo gusto e so che la porta è aperta. Ora godo del mio smarrimento: se non ci fosse un vuoto dentro di me in cui la conoscenza, l’intuito, il bene, la parola, l’Imprevedibile possa manifestarsi perché lo riempio di certezze assolute e verità in prestito, non sarei cresciuta di una spanna. Quel vuoto che ho intravisto è il coronamento di questi tre anni – oltre agli altri quarantotto che li hanno preceduti -.
E mi perdonerete se vi confesso che ho sorriso anche tutte le volte che ho sentito abusare della frase è stato scientificamente provato che… adducendo analogie alla fisica quantistica, alla meditazione, ai fenomeni onirici e altro ancora. Ma non perché non vi creda, il mio credere non ne ha bisogno. E’ bensì una gabbia il bisogno del supporto scientifico. Se fossi un matematico, 1+1 per forza sarebbe uguale a 2, per un counselor 1+1 raramente farà 2. I nostri argomenti non hanno bisogno di essere accreditati di una dignità presa in prestito dall’universo scientifico; la forza di tanto umanesimo sta lì.
Il metodo scientifico è la modalità con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva. Qualunque “è scientificamente provato che” nell’ambito del counseling tende ad oggettivare l’uomo. Ma si può rendere oggettivo un individuo? Un oggetto può essere oggettivo: un frigorifero è freddo, una macchina ha quattro ruote, questi fogli sono di carta. Ma un individuo è per sua natura soggettivo e mutevole: non vi è un uomo o una donna che si possano leggere allo stesso modo.
Con questo non voglio assolutamente svalutare la psicologia né tantomeno il counseling: ritengo persino la psichiatria più vicina alla filosofia che non alla medicina. E’ questa la sua forza. La nostra forza sta proprio nel non essere vincolati ai lacci della dimostrazione scientifica, a dati verificabili e inoppugnabili. Al massimo possiamo contare su prove statistiche e documentarie. Mica è poco. La grande ricchezza del nostro lavoro è data dall’attingere a un’immensa libertà di lettura della persona che si rivolge a noi, alla luce di un sapere che è solo nostro e, pure lui, soggettivo. E, in quanto tale, richiede un bilanciamento tra umiltà e fiducia in noi stessi.
E’ per questo che ho preferito il counseling ad altro: e non intendo ora ingabbiarlo con orpelli e zavorre, che lascio volentieri in parte agli uomini di scienza e in parte a coloro che non possono sopportare il dubbio e l’assenza di dimostrazioni a tutti i costi.
Cara Arianna, sei decisamente più carina di Fuffy ma la mole della tua presenza morale e la tua capacità di portare stabilità laddove ogni cosa traballa e affetto dove vi sono abissi da colmare, lo sovrasta mille volte. Grazie, immensamente grazie.
E voglio ringraziare i miei figli – Pietro e Arturo – i quali, seppur inconsapevolmente, mi sono maestri di vita.
E grazie a Stefano, che non mi ha lasciato sola nemmeno per un istante, sopportando stoicamente le mie assenze e gli umori variabili, i voli pindarici e le scivolate. Ma è sempre stato lì, e il mio risultato di oggi è anche in parte suo.
Immaginate ora le mie braccia di gomma estensibile che vi chiudono e stringono in un immenso abbraccio e la parola di chiusura stasera è “vi porto via con me”.
3 dicembre 2016