Tesi di Diploma Artemisia – di L.C.
“Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni.” Eleanor Roosevelt
Sono arrivata all’Istituto Artemisia nel luglio 2014. Ero nel pieno di un percorso personale di crescita e non lo sapevo. Credevo di essere “arrivata”. La decisione di iscrivermi al corso di counseling era per me un traguardo. Avevo capito che la vita che conducevo non era qualcosa che mi era capitato e che dovevo portare avanti cristallizzata così com’era. Potevo ancora migliorare me e la mia vita, potevo decidere di cambiarla, di provare nuove strade che si sarebbero aperte di fronte a me se solo avessi avuto il coraggio di sognarle. Oggi posso dire che l’iscrizione al corso non era un traguardo, ma una linea di partenza.
“C’è un solo angolo dell’universo che puoi essere certo di poter migliorare, e questo sei tu.” Aldos Huxley
L’impatto con la scuola è stato fortissimo. Ci sono volute due lezioni per capire che non solo non ero arrivata, ma la linea di partenza era in salita. E’ iniziato così un viaggio alla scoperta di me stessa profondo e anche in parte doloroso. Nella mia formazione degli ultimi anni avevo lavorato molto sul “non giudizio” nella relazione di aiuto. Avevo imparato a creare una “bolla relazionale” in cui la sospensione del giudizio era l’unica strada per creare contatto e una comunicazione efficace, oltre che ascolto e accoglienza dell’altro o dell’altra. Ciò che ho scoperto in Artemisia è che questa bolla relazionale non riguardava me. Il mio giudizio interiore era ancora altissimo. Per quanto fossi in grado di sospendere il giudizio nei confronti di chi incontravo sulla mia strada, con me ero severa e “tranchant”. La dinamica “pretesa/lamentela/accusa” era molto ben radicata in me, nonostante non me rendessi conto. Ho imparato che l’ascolto non è solo per gli altri, ma, anzi, la prima persona da ascoltare sono io. Ascoltare me, i miei pensieri, ma soprattutto le mie emozioni. Riconoscere le emozioni nel mio corpo, saper dare loro un nome e una collocazione, per poter avere una mappa di me stessa da esplorare ogni volta che mi sento persa, pur sapendo che sarà sempre una mappa in evoluzione. Ascoltarmi ha significato non spaventarmi e men che meno giudicarmi ogni volta che durante una lezione “improvvisamente” le lacrime salivano agli occhi, ma accogliermi e con curiosità andare a cercare di capire che cosa era successo, dove le parole che ascoltavo erano andate a finire dentro di me e così scoprire stanze nuove o dimenticate, e saperci entrare per aprire le finestre e arieggiare. E in ultimo, poterci uscire, sapendo esattamente la collocazione delle stanze nel mio castello e sapere che posso tornarci, e volendo posso anche imbiancarle e persino cambiare la disposizione dei mobili. E anche le stanze più buie e meno accoglienti sono meno spaventose ora, conoscendole so che non posso “cancellarle” dalla mia planimetria, ma so cosa succede quando ci entro e so che posso gestirlo. Una di queste stanze porta il nome della mia ferita primaria e oltre ad aver avuto modo di conoscerla, comprenderla e accettarla ho scoperto anche come posso prendermene cura. Approfondire argomenti come i copioni relazionali, la piramide dei bisogni e le funzioni della rabbia e paura, mi ha permesso di esplorarmi da diversi punti di vista. La metodologia esperienziale della scuola mi ha dato la possibilità di approcciarmi a me stessa con lo sguardo della cliente e della counselor, e questo ha favorito il percorso di crescita e la capacità di avere uno sguardo ampio e curioso, unico antidoto per il giudizio.
“Non credo che tu debba essere migliore di chiunque altro. Credo che tu debba essere migliore di quanto tu abbia mai pensato di poter essere.” Ken Venturi
Nel mio essere giudicante con me stessa, chiaramente, nella quotidianità, si svelava una grande rigidità nei confronti degli altri, che ovviamente sfociava in giudizio. Osservare gli altri in un’ottica diversa, in cui fungono da specchio e ciò che non mi piace, non approvo o persino mi urta di loro ha un significato per me, dice qualcosa di me, dei miei bisogni e può persino aiutarmi a migliorare, a cambiare il mio copione, o comunque la mia narrazione dominante, è stata una scoperta meravigliosa. Il modo in cui ci approcciamo verso gli altri, anche e soprattutto coloro che non ci piacciono, ma anche verso le nostre difficoltà o gli imprevisti della vita, non solo ci dice qualcosa di noi, ma anche del nostro modo di narrarci a noi stessi. E così sono riuscita a osservarmi, anche attraverso il modo in cui “guardavo e giudicavo” gli altri. Ho imparato a creare un nuovo racconto di me, e in questo modo a rimettere mano al mio copione di vita. Riuscire a “leggermi” , anche e soprattutto attraverso il mio corpo, è uno strumento eccezionale. Arrivo da un lungo gioco a nascondino con il mio corpo. Ho imparato presto a vergognarmene: ciò che per chi affettuosamente era un gioco, facendomi notare le mie rotondità, così come il mio piacere per il cibo, è diventato nel mio copione, una condanna, un motivo per nascondermi. E così sono cresciuta con una visione di me distorta, non sono mai riuscita a vedermi per come ero, la mia immagine allo specchio non corrispondeva alla realtà e men che meno a ciò che vedevano i miei occhi, sempre pronti al giudizio e alla condanna. Questo chiaramente ha influito sulla mia attitudine allo sport: non avevo la fisicità adatta, non potevo riuscire in nulla. Così è stato più facile raccontarmi per anni (anzi, direi per tutta la mia vita finora) che non mi interessava. Allo stesso modo tutte le diete fatte non hanno avuto risultati nel tempo, perché le facevo per placare il mio giudice interiore, sempre alla ricerca dell’approvazione altrui. Ma io continuavo a non guardarmi, non osservarmi e non accettarmi. Continuavo a raccontarmi che non ero interessata all’estetica, che anzi in me le persone avrebbero dovuto amare ciò che ero. Insomma vivevo immersa in una convinzione di dualismo tra anima e corpo, non c’era traccia di “Lucia” nella sua totalità nel mio copione. Complice un periodo complicato dopo la nascita di mio figlio, sono approdata alla corsa e contemporaneamente ad un percorso personale, dove per la prima volta qualcuno mi ha messo di fronte all’innegabile realtà: io sono una e posso prendermi cura di tutta me stessa, considerando ogni parte di me. Come ho detto all’inizio, sono arrivata in Artemisia nel pieno di questo percorso e come tutti i lavori che si fanno su se stessi, ma sopratutto dentro se stessi, l’andamento a spirale, che ci fa ripassare dagli stessi punti, ma ad un livello di profondità diverso, mi ha riportata in contatto con l’ascolto del corpo. Saperlo ascoltare e leggere, sapendo che inizialmente alcune sensazioni le riconosceremo dopo, a freddo e riflettendoci, ma che una buona pratica ci aiuterà a riconoscerle sempre prima e ci aiuterà a riconoscere le dinamiche e nostri bisogni, soddisfatti o insoddisfatti che siano, e a gestire tutta l’emotività conseguente. Di questa straordinaria risorsa mi sono resa conto poco tempo fa: il 26 marzo ho corso la mezza maratona di Torino. Nel pieno del lutto per la perdita di mio fratello, ho deciso che avrei preparato la mezza maratona in suo onore. In fin dei conti era stato uno degli ultimi argomenti di conversazione, quando gli raccontavo le mie uscite di allenamento al freddo invernale. Mi sono preparata e sono arrivata al giorno della gara convinta che sarebbe andato tutto bene. La prima parte della corsa è andata bene, molto bene, ho tenuto un ritmo veloce ed ero molto soddisfatta, fino a che ad un certo punto, intorno al 14 km, ho avuto un attacco di panico. Ero in un sottopasso e ho dovuto fermarmi. Da lì in poi la gara è stata una sofferenza, partivo e mi rifermavo e ho faticato tantissimo ad arrivare al traguardo, dove mi aspettava una persona speciale e finalmente, abbracciandola, sono uscite le lacrime. Ero arrabbiata e delusa di me, non doveva andare così e non mi ero preparata per un risultato così poco soddisfacente. La testa aveva giocato contro, ma non capivo come mai. Due giorni dopo sono andata a correre per sciogliere le gambe e così ho avuto modo di pensare e ragionare (la corsa è un’ ottima occasione per liberare i pensieri e ragionare senza essere interrotti). Ripercorrendo mentalmente la gara, e riflettendo sulle mie prestazioni e sulle sensazioni fisiche ho avuto tutto chiaro: la prima parte, quella veloce, era nel percorso che andava dal centro agli ospedali e il ritmo più alto l’ho tenuto proprio passando sotto il Regina Margherita, l’ospedale dove è morta la mia prima figlia ormai quasi undici anni fa. La crisi e l’attacco di panico sono arrivati invece proprio nel sottopasso delle Molinette: l’ospedale dove poco più di due mesi prima è morto mio fratello. E così ascoltare, anche se in differita, il mio corpo mi ha permesso di fare una lunga riflessione su di me, su dove sto rispetto ai miei lutti e sul fatto che mentre Alice e il suo veloce passaggio su questa terra, in questi anni è diventata risorsa, motore e benzina per il mio vivere; il dolore per la perdita di Demetrio è ancora tutto lì. E giustamente. Questo è il tempo di starci dentro, di non cercare di correre via, ma farsi attraversare anche rallentando se necessario. E’ solo così, che io posso far diventare questo grande dolore un nuovo sprone, un’energia propulsiva che mi porterà a camminare e correre per strade nuove con gratitudine per ciò che ho ricevuto, e non solo dolore e rammarico per ciò che ho perso.
“Il segreto per andare avanti è iniziare.” Sally Berger
Scrivendo queste poche pagine e rileggendole ho la consapevolezza che il percorso di conoscenza di me è ancora tutto in divenire, ma ho già riconosciuto molti miei punti deboli, riesco a leggermi e quando ancora l’emotività prende il sopravvento so che ora ho la capacità di soffermarmi dopo e comprendere ciò che è successo o quantomeno so da dove partire per cercare di farlo. La consapevolezza del proprio modo di vedere la realtà e della sua relatività, ci pone nel campo delle ipotesi che è il luogo da cui può partire un cambiamento. Lasciare lo spazio a ciò che non conosciamo e alla curiosità di conoscerlo e accoglierlo è già di per sé un’avventura straordinaria. Oggi finisco il mio percorso in Artemisia, ma continuo il mio. Come ho detto all’inizio, sono arrivata in Artemisia nel pieno di una tempesta, ma non lo sapevo. Esco consapevole di essere nuovamente dentro una tempesta, ma anche consapevole di avere tutte le risorse per uscirne. Di questo voglio ringraziare Arianna, i miei compagni e le mie compagne di questi tre anni, e coloro che mi hanno sostenuta in ogni modo possibile: mio marito, i miei figli, mio papà e Simona.