La “centratura” nel coaching e altrove
Partendo da una certa distanza, il sostantivo “centratura” si riferisce, dizionario alla mano, a processi fisici, meccanici in particolare: si esegue una “centratura”, ad esempio, quando si equilibra un corpo rotante o quando si allineano determinati oggetti tra loro.
Osservato dalla prospettiva di quelle discipline – la psicologia in primis – dalle quali il coaching seleziona ed estrae i contenuti alla base del proprio particolare metodo e della propria precisa azione di “aiuto”, il termine “centratura” si specializza, andando ad indicare un concetto o un sistema di concetti, dei quali però ancora non si trova, questa è la mia opinione, una definizione sintetica, univoca e completa. Su un piano intuitivo, per il momento, teniamo a mente la continuità con i significati iniziali: equilibrio e allineamento.
Per sondare il senso di un concetto ho sempre trovato appropriato sostituire al suo sostantivo (“centratura”) il verbo che ne indica lo stato o il moto corrispondente. Nel dominio del coaching si dirà quindi “centrarsi”; un’azione sicuramente riflessiva; anzi, in termini più precisamente grammaticali, è un’azione “propriamente” riflessiva: il soggetto centra “se stesso”.
Più da vicino, se “lavarsi” è riferito alla superficie esterna del proprio corpo e “pettinarsi” è riferito ai propri capelli, ecco un primo sussulto: il soggetto cosa “centra” di “se stesso”, ma soprattutto che bisogno ha di “centrare” ciò, e rispetto a che riferimento, per portarlo dove?
Non rispondo, lascio sedimentare queste domande, resisto al mio ego che vuole imporre scorciatoie, che pressa con un “…dai che lo sai….lascia perdere…lo sanno tutti”. Anzi, rincaro la dose: centrarsi è “esclusivamente” riflessivo. Potrà mai qualcun’altro, benevolo o malevolo nei miei confronti, “centrarmi”? O forse “centrarsi” al mio posto?
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Prendo un legno levigato e imbiancato dal mare e traccio un bel solco, dritto più che posso, sulla sabbia. Sarà “duale” ma almeno non è equivoco: da un lato chi crede che è venuto al mondo e che lì soffre a causa di un peccato originale dalla cui colpa è toccato (io credo sia opportuno l’uso della terza persona singolare al posto della prima persona plurale: che ognuno affermi per sè il motivo della propria sofferenza), dall’altro lato io con coloro i quali avvertono la sofferenza come generata da ciò che sinteticamente si definiscono “difetti mentali”.
Chi intimamente pensa di poter ridurre e, a tendere, di poter estinguere la sofferenza correggendo possibilmente fino alla totale cancellazione i propri difetti mentali, trarrà beneficio dal collocarsi nell’alveo del “Sistema Educativo Superiore”[1].
La pratica meditativa è una delle componenti del Sistema Educativo Superiore. Essa promuove il pieno sviluppo personale se unita alle altre due componenti educative: la pratica della disciplina etica e l’acquisizione e l’uso della saggezza. Espressivamente e con semplicità un qualificato autore[2] ha così chiarito come diventa la mente che pratica l’etica, la meditazione e la saggezza: rispettivamente “flessibile”, “forte” e “capace di superare gli ostacoli”.
In sè, al netto degli aspetti di etica e di saggezza, e isolandone l’elemento che brevemente chiamo “concentrativo”, la meditazione svolge la funzione elementare di igiene mentale, un’azione di bonifica e di purificazione dei pensieri e delle emozioni, facendo co-emergere quiete, lucidità, benessere e ripristinando la capacità di introspezione – capacità con la quale osserviamo la qualità del nostro stato mentale – e di vedere la realtà per come è[3].
Quiete come antidoto contro l’irrequietezza; lucidità come cura della vaghezza, della confusione, del dare per scontato; benessere come risultato olistico, come assaggio della possibilità dell’uomo di trasformarsi volontariamente lavorando su vari livelli, neuro-psico-somatico, o, secondo il lessico tipico delle discipline esoteriche, fisico-eterico, astrale, mentale e superno.
La mente lasciata nell’ordinarietà forma e insegue i pensieri più vari, sviluppa emozioni per reazione a fatti esterni e sempre all’esterno ne ricerca sempre di nuove.
Interno notte. Mi metto a letto, sbadiglio e appena chiudo gli occhi li riapro – un flash – non ricordo di aver chiuso a chiave la porta. Mi alzo innervosito, al buio, passo a tentoni accanto al comò e sento proprio lì, all’improvviso sotto i polpastelli, un chè di infeltrito. Ecco dov’era il cappello che cercavo da giorni e che temevo di aver smarrito chissà dove. Sospiro di sollievo! Ma come ho fatto a non accorgermente? Eppure era lì in vista… mah, comunque sia, accendo la luce e lo poso nel ripiano dell’armadio accanto a quell’ombrello rotto che, boh, ero convinto di aver già buttato…pazienza, lo getterò domani. Torno in camera, mi metto a letto, sbadiglio…ah già, devo spegnere la luce nell’ingresso. Mi rialzo, spengo la luce e con la stizza che dissolve il sollievo del cappello ritrovato mi rimetto a letto…ma l’avrò chiusa a chiave la porta? Meglio scendere per controllare…sì, era chiusa.
La mente lasciata nell’ordinarietà non è qui e non è ora. Rumina, discorre, dimentica. Si traduce con “consapevolezza” (inglese – mindfullness) il termine sanscrito smrti (pali sati), che etimologicamente significa anche “tenere a mente”. Nell’ordinarietà è più frequente sperimentale cosa non è consapevolezza.
La quiete è promossa dal silenzio e dall’immobilità del corpo. La lucidità dalla stazione eretta del busto. La progressiva acquisizione di consapevolezza è allenata dall’esercizio dell’attenzione, attenzione focalizzata su un oggetto, oggetto che va prima scelto intenzionalmente e poi trovato e trattenuto.
Il primo oggetto per riconoscibilità è il respiro, oggetto vitale e instantancabile, involontario finchè la mente lo trova, dopodichè il respiro chiede di essere guidato, e la mente lo rende lento, profondo, per poi riposare, neutrale, sulla regolare alternanza di inspirazioni, pause, espirazioni, come una foglia caduta in uno stagno vibra appena sulle piccole increspature che essa stessa ha creato nell’acqua.
E con la mente placata, pure ogni emozione si acquieta e ogni muscolo si rilascia.
Certo, di solito a questo punto, la bolletta in scadenza domani proverà a far vacillare l’attenzione sul respiro. La mente trova sempre un oggetto su cui posarsi, ma è abituata a dimenticarsene poco dopo, per inseguirne un altro e un altro ancora.
Senza rimproveri, riporto l’attenzione sul respiro, e per faciltare il compito faccio ora il respiro più sonoro, e magari conto anche…la sequenza dei respiri, la durata delle pause…la parte cognitiva ha ora i suoi giocattoli e la mente, con volontà e controllo potrà godere entusiasta del silenzio interiore che avrà saputo creare.
Raccolto così nel “qui” di me stesso, “ora” passo in rassegna le percezioni corporee, avverto l’equilibrio naturale della postura, la sua simmetria, il contatto con quanto sostiene le mie membra, il movimento sincronizzato e progressivo dell’addome, del torace e delle spalle durante la respirazione; poi sposto l’attenzione sulle percezoni sensoriali, uditive in particolare, e di tutto questo ne sono testimone nel presente.
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Qui e ora, consapevole, non dimentico, del mio corpo e del mio respiro, tranquillo e lucido, sono testimone dei miei pensieri, delle mie emozioni, del loro fluire impermanente; arrivano e vanno senza trasportarmi perchè sono, finalmente, nel silenzio del mio “centro”, sotto la luce di un Sè più alto.
Così, presente a me stesso, genero la motivazione della sessione: sarò empatico e benevolo verso l’Altro, verso chi si rivolge a me con fiducia; lo ascolterò in silenzio, lo comprenderò senza giudicare; restituirò ciò che espone e lo chiarirò con domande opportune, affinchè egli possa rispecchiarsi, vedersi chiaramente e impegnarsi responsabilmente con se stesso. L’obiettivo che raggiungerà, il futuro per lui migliore che
[1] La definizione “Sistema Educativo Superiore” è usata da Andrea Capellari nel ciclo di conferenze “Il processo neuro-psico-somatico yogico” tenute presso il Centro Studi Tibetani Mandala – Milano, riferendosi al processo di crescita interiore individuale che nel sistema buddhista Vajrayana è suddiviso in tre ambiti: l’Etica, la Meditazione e la Saggezza. Suddivisioni sostanzialmente analoghe si riscontrano nelle varie scuole spirituali orientali, come ad esempio nello Yoga Sutra di Patanjali e nella dottrina dell’ Ottuplice Sentiero del buddhismo antico.
[2] Ven. Geshe Gedun Tharchin – “Lo Yoga del sogno e del sonno” – Conferenza tenuta presso il Centro Studi Tibetani Mandala – Milano.
[3] Si richiama qui uno dei significati del termine sanscrito Dharma (pali: Dhamma): “come le cose sono”, “fondamento della realtà”, sebbene sia più frequentemente tradotto come “legge”.