Un pendolo, un lungo pendolo oscillante con un grosso peso in fondo in un primo momento sembrerà tracciare una linea retta, dopo un po’ e solo dopo un po’ ci si renderà conto che la figura tracciata dalle oscillazioni non è una linea retta ma una infinita linea curva. Così a metà del XIX secolo Foucault presentò un modello sperimentale che dimostrava contemporaneamente ed inequivocabilmente che la terra ruota su se stessa e che è sferica. La figura si ripete in tempi diversi a seconda della latitudine e ruota in senso orario in un emisfero e antiorario nell’altro.
Da allora sono passati quasi 170 anni eppure ancora oggi si parla di terra piatta.
Ancora prima, Eratostene di Cirene già aveva intuito che la terra fosse sferica semplicemente osservando le ombre proiettate dal sole e misurandone le distanze a spanne e manazza sbagliandosi di pochissimo, meno di quindici metri al chilometro. Per essere una misurazione fatta più di 2300 anni fa non c’è male.
Ci sono voluti poi 18 secoli di terre piatte e colonne d’ercole, di tradizioni e di oscurantismi prima che tre barchette toccassero terra in quelle che si pensava fossero le coste del Katai o del Cipango.
Cento anni esatti passano da allora e Giordano Bruno viene incarcerato per eresia, per aver dichiarato l’infinità dell’universo, la molteplicità dei mondi, il moto della terra intorno al sole e contestando qualche dogma di troppo. Viene arso vivo nel 1600 dall’inquisizione romana, da Clemente VIII che di persona invitò i giudici a procedere, condannando a morte un eroe del libero pensiero che dopo aver udito la decisione dei giudici rivolse loro, rialzandosi, un ultimo contributo alla consapevolezza dicendo: “Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”.
Questa frase mi ha particolarmente colpito, fin da quando l’ho letta la prima volta e per tanti e tanti anni l’ho associata ad un’altra celebre frase pronunciata da Schopenhauer: “O pensi, o credi”.
C’è voluta quasi tutta la mia vita per prendere consapevolezza che questo è stato il mio più grande errore. Mi conforta il fatto che un altro grande del pensiero occidentale, Omer Simpson, per consolare suo figlio Burt dopo averlo sentito dire “è il giorno peggiore della mia vita” gli disse, appoggiandogli amorevolmente la mano sulla spalla: “è il giorno peggiore della tua vita, finora”.
Mi conforta perché sono cosciente del fatto che di errori ne farò ancora, del resto il detto popolare “sbagliando s’impara” presuppone che l’apprendimento, la consapevolezza, non prescinde dall’errore che quindi è necessario.
È necessario tentare, è necessario sperimentare, è necessario fallire, è necessario pensare ed è necessario credere, avere fiducia nel processo di consapevolezza poiché è da questo che emergono le soluzioni creative alle difficoltà, è da questo che si riesce a trovare il modo di superare un ostacolo.
Ci ho messo decenni a capire che non servono decenni per capire. Quel che serve è rinunciare alle convinzioni, rinunciare alle posizioni di potere, alla prevaricazione, al desiderio di avere ragione, al giudizio, sia verso gli altri che verso se stessi.
Quel che serve è anche la passione nel portare avanti le idee ed il coraggio di confrontarle e se è il caso di abbandonarle, lasciarle andare se dovessero risultare fallaci di fronte ad una realtà emergente da una più nitida trasparenza della finestra dalla quale la osserviamo.
Campionamento e quantizzazione sono due termini che prendo a prestito dal mio lavoro ed indicano la misura in cui riesco a rappresentare fedelmente la realtà. Le convinzioni ed il giudizio ne sono antagoniste poiché non reggono al confronto con ciò che c’è nel qui ed ora, quando si ha quel po’ di spinta che serve per fare un salto nel vuoto uscendo dalla zona di comfort.
È da questa consapevolezza che mi sono avvicinato al mondo del counseling e del coaching, è da qui che ho sentito la necessità di acquisire delle competenze specifiche affinché potessi cominciare a colmare il divario che ho alimentato per tanto tempo trincerandomi nel pensare che “I sape i cosi”.
In tutto questo, non mi sono comportato diversamente da Clemente VIII o da quelli che hanno soprannominato Eratostene con il nomignolo “beta”, ad indicare che “si impegna, ma potrebbe dare di più” non vedendo che di primeggiare non glie n’è mai importato.
Quindi il mio è un cammino di redenzione, iniziato anni fa, quando mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita ed in quella selva ho incontrato sia le belve che Virgilio il quale mi ha rammentato che non ci sono scorciatoie, il giro turistico all’inferno s’ha da fa.
Ho quindi incontrato il Coaching, soprattutto ho incontrato i suoi strumenti che nei mesi ho potuto acquisire e sperimentare ed ho potuto capire l’estrema importanza della deontologia e del codice comportamentale che come professionista sono chiamato ad adottare.
Non giudizio, ascolto attivo, domande efficaci, pensiero laterale, relazione facilitante, esplorazione delle risorse. L’importanza fondamentale di non dare consigli e di avere fiducia nel processo di consapevolezza che i miei futuri Coachee metteranno in opera. Tutto quello che sono chiamato a fare è di essergli specchio, a prescindere dal risultato che da qualche parte ha in me la pretesa di essere soddisfatto.
Tutto quello che sono chiamato a fare è di essere nel qui e ora e di essere d’aiuto e di supporto nel fare il tifo per il mio coachee affinché giochi la partita che ha deciso di giocare, non importa vincere o perdere, importa aver dato il meglio. Non importa essere perfetti, importa essere il meglio che si può essere, importa che si acquisisca la consapevolezza di aver compiuto un percorso e che si sono trovati degli ostacoli, importa che si acquisisca la consapevolezza che le difficoltà sono li per essere affrontate, e che si possono superare.
Da Coach, è per me importante accogliere il fatto che la più grande vittoria la otterrò nel momento stesso in cui diventerò inutile per il mio Coachee.
Nel corso della mia vita sono stato coachee tante volte senza saperlo, e non so se chi in quel momento mi ha fatto da coach ne fosse consapevole. Sta di fatto che da queste relazioni è sgorgato l’interesse, la brama di apprendere ed è da queste esperienze che rammento, ricordo e rimembro ciò che ho imparato.
Uno di questi Coach in particolare è vivo nella mia memoria ed è, o meglio era, un falegname che aveva la bottega vicino alla casa di montagna dove passavo l’estate da bambino.
Ricordo pomeriggi interi passati nella sua bottega a guardare affascinato come costruiva un mobile dal legno grezzo, come preparava gli incastri, come intarsiava i decori. Ricordo l’odore del legno di pino, di abete, di ciliegio e di noce al punto che potrei riconoscerne le essenze olfattive ancora oggi. Sento potente il profumo delle resine, la morbidezza dei trucioli di legno che calpestavo con fruscii impercettibili mentre i raggi del sole trapassavano lo sfrido ligneo che volava via dopo sapienti colpi di pialla.
Ricordo i movimenti di quegli scarti che prima di posarsi a terra danzavano nell’aria, così leggeri da galleggiare nel niente quasi a voler donare uno spettacolo amorevole ad un bimbo incantato.
Mentre questo avveniva Faustino controllava che non mi facessi male e con occhio attento si interessava a ciò che stavo facendo e mi dava il permesso di armeggiare con i pezzi avanzati.
Quando mi trovavo in difficoltà nella costruzione di un improbabile sgabello, mi bastava girarmi verso di lui e contemporaneamente si girava verso di me porgendomi lo strumento più idoneo per incastrare due pezzi, senza dire una parola, ad eccezione di “prova”.
Sono grato a Faustino per quanto mi abbia accolto e per quanto mi abbia fatto sentire visto. Quando è morto ero già adulto ed erano anni che non lo vedevo ma ne sono rimasto profondamente toccato. Se dovessi descriverlo in estrema sintesi, direi che è stato un grandissimo Coach.
Questo voglio portare nel mondo, questo è ciò che mi ispira quando penso al mio futuro da professionista nel campo del Coaching.
“La creatività è l’intelligenza che si diverte”
Albert Einstein