Istituto Artemisia

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Coaching Istituto Artemisia

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Crescita personale Istituto Artemisia

CRESCITA PERSONALE

Operatore olistico Istituto Artemisia

PROFESSIONISTA OLISTICO

Tesi di Diploma Artemisia – F.B.

16 Aprile 2018

Ed eccoci qui, a ripercorrere questi miei ultimi tre anni…da dove cominciare…

Comincio da quel senso di smarrimento e mancanza di posto nel mondo che mi pervadeva da tanto, tantissimo tempo…33 anni, troppo vecchia per essere ancora a zonzo nel mondo, nella confusione dentro e fuori, troppo giovane per rassegnarmi al non avere uno spazio da occupare.

E’ accaduto in un giorno d’estate, a Viareggio, ero in bici e tornavo verso casa quando una specie di pensiero mi ha attraversata (oggi lo chiamerei diversamente) riportandomi alla mente che esisteva una “cosa” chiamata counseling.

Non sapevo nemmeno di preciso di cosa si trattasse, ne avevo sentito parlare anni prima.

Decido di fermarmi a un bar che ormai è casa e mi prendo una spuma ghiacciata.

Ho il tablet dietro, non ce l’ho mai, ma guarda caso, quella mattina sì…il caso…

E’ così che comincio a scegliere per me…ancora non la so quella roba lì, la saprò solo dopo.

Non dico nulla a nessuno, alla mia famiglia, al mio compagno, a nessuno…troppe volte li ho illusi con entusiasmi passeggeri…cerco, cerco e basta…cerco scuole a Viareggio, cerco scuole a Torino, chiamo, mi informo, parlo con gente…la mia pancia però mi tiene in allerta, non sono soddisfatta…e questa volta, caschi il mondo, mi ascolto!

E’ il 15 di settembre…sto continuando a cercare…

Istituto Artemisia, con sede a Borgone (a Borgone?? porca miseria ma è a dieci minuti da me! Io qui, persa in mezzo ai lupi, impanicata dalle distanze che questa città pretende che io percorra per fare ogni cosa, mi mette una sede della scuola in Valle!)

E’ il 15 di settembre…e il 16 c’è una presentazione di questa Artemisia…pensa te, di nuovo il “caso”…

Scrivo, chiedo informazioni, mi rispondono nel giro di pochissimo…e una tizia mi chiama pure!! Ma guarda te che “cura” che ha questa certa Arianna…ok…la mia pancia è rilassata. 

Ho deciso che vado a sentire.

O mamma quanta gente, che vergogna…e chiedono pure di parlare di noi, del perché siamo lì…e che cavolo ne so?? Devo già dire davanti a tutti che mi sarebbe garbato un casino lavorare con le persone, ma ho scelto un percorso universitario che non c’incastrava nulla e che sono nel panico da futuro e che non ne posso più di non sapere chi sono e di deludere chi amo e chi mi ama?? ok…tranquilla…respira…fai un sunto…uno spoiler…respira…

E poi sento parlare anche gli altri, ci sono diverse persone che sono anche docenti, raccontano cosa fanno là dentro…e c’è anche una che…sì…non mi sto sbagliando… quella lì è toscana!! 

Oddio è toscana…!! …sorrido…qui c’è un pezzo di casa…

Così è cominciato questo viaggio dentro, è cominciato dalla cura che qualcuno ha avuto per me, forse per insegnarmi a fare lo stesso…

E se all’inizio ero assorbita dalla foga di imparare, capire, leggere tutto il leggibile, sapere tutto lo scibile, ho iniziato a lasciare lo spazio ad una cosa nuova per me, assaporarmi il viaggio, giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno…

E tutto è stato così naturale…un’onda che vedi arrivare e lasci che faccia quello che deve fare, allungarsi sulla riva…a volte con clemenza, a volte con irruenza.

Ho trovato cuori affini, ho trovato persone che mi hanno fatto sentire meno forte la mancanza di casa, perché finalmente anche qui avevo qualcuno con cui confrontarmi, a cui affidarmi, con cui condividere pezzi di anima. 

Il mare chiama, continua a chiamare forte, ma la Valle è diventata porto in cui imparare a stare, da imparare ad apprezzare e, con Artemisia, la culla sabauda in cui essere a casa, quando la casa è lontana.

Ho iniziato a notare piccoli, ma non troppo lenti cambiamenti, a spostare l’attenzione da me verso l’altro, a pormi il dubbio di cosa comunico e soprattutto come lo faccio, come lo fanno le persone intorno, avere cura di osservare anche da altri punti di vista…ho iniziato ad ascoltare.

Credevo di essere una buona ascoltatrice…no…ero quasi sempre fuori, o fuori di me o fuori dall’altro, non sapevo sentire dentro…e se sentivo, sentivo talmente tanto che mi devastavo…che grande invenzione la distanza riflessiva!

E che grande lavoro per comprendere, nel senso di prendere con me, e accettare le mappe altrui.

Ho gustato, succhiato e poi preso a morsi questa roba della responsabilità e dei confini…non posso tutto e ci sono cose che non sono mia responsabilità, ma nel mio piccolo immenso universo, posso sempre sempre sempre scegliere.

“Il modo in cui gli altri ti trattano fa parte del loro cammino, il modo in cui tu reagisci fa parte del tuo.” ho trovato scritto un giorno…e così ho scoperto che responsabilità e libertà viaggiano a braccetto…due aspetti che credevo antitetici si rivelano amiche inseparabili.

La mia responsabilità è la mia libertà di scegliere.

Ma non è stato tutto ganzo…proprio per nulla…perchè poco dopo un anno arriva il grande scoglio non segnalato, pronto lì per farti schiantare…le proiezioni!!!

Maremma rospa che ciabattata…

No no…non si può…ma voi siete tutti matti…io a quella roba lì non – ci – cre – do…!! Non è possibile che sia mio tutto quello schifo!! Io sono una persona per bene, per la miseria!!!

Io mollo tutto…me ne resto a casina mia (quella salmastrata!) e lassù non ci torno…mi rifiuto!!!

Mi sono tenuta l’incazzo addosso per diversi giorni, poi è arrivato lo sgomento…faccio proprio schifo come mi fanno schifo alcune persone…

Ed eccomi lì…a giocarmela col mio giudice, finalmente manifestato in tutta la sua enormità, in tutta la sua insuperabilità, in tutta la sua cattiveria…

Accasciata, spezzata, me ne vado ad uno dei tanti colloqui con l’Ari e parlo, e quanto piango, per me, per la mia oscurità, per il peso sulla nuca…il peso sulla nuca….”sai Francy, il peso sulla nuca è anche il senso della morte…quanto ti lasci morire quando non ti sostieni?”

Sbhamm…!!! La mia mente ha fatto un rapido conto delle mille mila volte che mi sono uccisa…che ho lasciato morire parti di me…

Mamma mia quanto ho pianto…su ogni mia tomba, sono tornata su tutte…una ad una le ho guardate forse per la prima volta e ho sentito una compassione per me che si è espansa talmente tanto da abbracciare tutto il mondo…e mi sono riletta una lettera che avevo scritto a me stessa, quattro anni prima, in cui mi scusavo e facevo pace con me, in cui promettevo di prendermi cura di me, promessa poi non mantenuta…

Allora ho iniziato ad imparare l’arte di chiedermi perdono, accettarmi per quanto mi sono maltrattata…quando lo facevo, non sapevo fare niente di diverso e comunque facevo quello che credevo fosse meglio per me.

E’ così inutile massacrarsi per ciò che si è fatto…quella roba lì, è “solo” la nostra storia…iniziare a guardarmi con clemenza è stata la scalata del mio Everest…non che lo faccia sempre, ma almeno ora so che è possibile e anche parecchio utile!

Ricordandomi di un passo di “Donne che corrono coi lupi” che dice: “L’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dentro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che ci trotterella dietro va indubbiamente a quattro zampe.” ho cominciato ad accarezzare la mia, perché là dietro c’è quello che vorrei tenere a bada, ma anche quello che fa parte del mio inconscio e intuito più profondi, e questo voglio che resti con me, come un qualcosa a cui affidarmi nel bisogno.

E’ stata la volta dell’impazienza di far vedere che ero diversa e sono caduta nella pretesa che chi mi stava intorno lo capisse con i miei stessi tempi…ed è stato lì che ho imparato a dialogare con la mia rabbia che è una paura e la paura che è un giudizio.

Ho imparato ad usare meno parole, ma più corrette…ho imparato a tacere prima di parlare.

E se ho sempre ritenuto la parola rivoluzionaria, ho cominciato ad accorgermi di quanto potesse esserlo anche il silenzio…il silenzio consapevole, non quello della ripicca.

Il silenzio che fa spazio, il silenzio che ci fa uscire dalla reazione e ci accompagna nella presa di coscienza.

Con l’arrivo del momento del tirocinio è arrivata di nuovo e prepotente la paura di non farcela, la paura di fare danno, di fare del male agli altri.

Lavorare con le persone, con il loro malessere…persone che vengono da te con la speranza e la pretesa, a volte, che tu possa aiutarle.

E se non ci riuscissi? E quello sarebbe il meno, mi dicevo…ma se fai danni e peggiori le cose?

Soffocavo…e in quel momento fu Max a ricordarmi una cosa: qualche anno fa, dopo la tesi, feci una stagione come cameriera, lavoro mai svolto prima, e nella settimana antecedente l’inizio di quell’esperienza stetti in casa a provare a portare tre piatti insieme, per il terrore di non essere in grado…così ho potuto rimettere a fuoco che se il mio giudice è spietato, ha come altra faccia della medaglia il mettermi in condizione di preparami il più possibile.

Quindi la paura si è trasformata in senso di responsabilità verso l’altro e antenne sempre dritte e tese, affinché non sconfinassi e non nuocessi.

Agguanta la risorsa, Fra…gira la medaglia e controlla cosa c’è dietro.

Il confronto con i miei clienti e le supervisioni mi hanno permesso di andare a contattare una parte che conosco molto bene, l’umiltà…ma lavorarci in modo così presente è stato ancora più illuminante. L’umiltà ti permette di assorbire come una spugna tutto quanto può arrivare come insegnamento, ti fornisce la capacità di fare tabula rasa, di regalarti dei dubbi, di mettere dei punti interrogativi a ciò che fai da molto tempo.

I conti con la fiducia in me, come tutti i conti, sono arrivati in fondo…proprio alla fine, con l’ammazza caffè.

Era arrivato il momento di riprendere in mano un po’ di fili sparsi e dar loro un senso…era arrivato il momento di riunire tutti i pezzi, quello che sono stata e quello che sono.

Tutto ciò che ho fatto in passato, la mia laurea in progettazione sostenibile, la mia etica ambientale, non erano perse, anzi…così le ho mescolate insieme a ciò che ho acquisito come strumenti nella scuola fino a creare una serata, un laboratorio che ho intitolato “Appunti sostenibili: verso un’ecologia interiore”, perché il lavoro che possiamo fare su e dentro di noi è, a mio avviso, la migliore possibilità che abbiamo per rendere il mondo in cui viviamo più etico, equo e sostenibile…non si può pensare di fare una corretta ecologia fuori, senza occuparci contestualmente della nostra ecologia interiore.

Siamo indissolubilmente legati al pianeta che ci accoglie, il nostro inconscio si fonde con l’inconscio terrestre, amare la Terra significa imparare ad amare noi stessi e viceversa.

Ed ecco la confusione che torna ad essere solo fusione, mescolanza, qualcosa di più della somma delle singole parti che la compongono, un’alchimia.

Niente di quello che sono stata è andato perso e anche se ci ho messo un po’ di tempo a trovare il mio sentiero, riesco a vedere il tutto quanto è stato come una necessità per essere dove sono ora. Se fosse stato altro, non sarei così adesso…e come sono adesso mi piace, mi piace la compagnia di me stessa.

Mi piace questa mescolanza…ho lasciato andare cose che non erano più per me, ne ho tenute care altre. 

La poetessa Wislawa Szymborska scrive: 

In caso di pericolo, l’oloturia (o cetriolo di mare) si divide in due: 

dà un sé in pasto al mondo, e con l’altro fugge. 

Si scinde in un colpo in rovina e salvezza, in ammenda e premio, in ciò che è stato e ciò che sarà. 

Nel mezzo del suo corpo si apre un abisso con due sponde subito estranee. 

Su una la morte, sull’altra la vita. 

Qui la disperazione, là la fiducia. 

Se esiste una bilancia, ha piatti immobili. 

Se c’è giustizia, eccola. 

Morire quanto necessario, senza eccedere. 

Rinascere quanto occorre da ciò che si è salvato. 

Credo di aver fatto come l’oloturia, sono morta quanto necessario, senza eccedere, e sono rinata da ciò che ho deciso di salvare.

E ciò che sono diventata da questo morire e da questo rinascere, ve lo lascio dire dalle parole di Franco Arminio, che scrive meglio di me:

“Ci vuole un impegno commosso per questa Terra e per tutte le creature che la abitano. Mettere nella politica qualche furbizia in meno, qualche incanto in più.

La politica deve avere un sapore di alba, di operai che vanno al lavoro, di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. (…)

Conoscere un luogo e abitarlo, questo è importante. Sapere a che punto è il grano, come stanno le vacche, che fine faranno le api. 

Sapere dove stanno le sorgenti, dove fanno il nido gli uccelli, conoscere i colori delle porte chiuse.

Più che la foga della crescita, ci vorrebbe il culto dell’attenzione. 

Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. 

Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.

Aiutare i vecchi. Aiutare le persone che vivono nelle periferie e nei paesi più sperduti e affranti. (…) Considerare che oggi il margine può essere più fecondo del centro. 

Abbiamo bisogno anche di conservare paesaggi inoperosi, luoghi salvi dalla catena del consumare e del produrre. (…) 

Bisogna ascoltare con clemenza (…) 

Trovati uno scalino, riposati con la faccia al sole. Se c’è qualcuno che parla, ascoltalo. Per tornare a casa aspetta che sia sera. Usa il buio come un fiocco per chiudere la giornata e fanne dono a chi ti vuole bene. 

Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro. Vai a fargli visita prima di partire e quando torni. Stai all’aria aperta almeno due ore al giorno. Ascolta gli anziani, lascia che parlino della loro vita. 

Fatti delle piccole preghiere personali e usale. Esprimi almeno una volta al giorno ammirazione per qualcuno. 

Dai attenzione a chi cade. Leggi poesie ad alta voce. Fai cantare chi ama cantare. Prova a sentire il mondo con gli occhi di una mosca, con le zampe di un cane. (…)

Spesso gli uomini si ammalano per essere aiutati. 

Allora bisogna aiutarli prima che si ammalino. 

Salutare un vecchio non è gentilezza, è un progetto di sviluppo locale. 

Camminare all’aperto non è seguire il consiglio del medico, è vedere le cose che stanno fuori. 

Ogni cosa ha bisogno di essere vista, anche una vecchia conca piena di terra, una piccola catasta di legna davanti alla porta, un cane zoppo. Quando guardiamo con clemenza facciamo piccole feste silenziose, come se fosse il compleanno di un balcone, l’onomastico di una rosa.

Camminare, guardare gli alberi, non dire e non fare nient’altro che un giro nei dintorni, uscire perché fra poco esce il sole, perché una giornata qualsiasi è il tuo splendore.

Fatti girare la testa velocemente e poi fermala, apri gli occhi a caso: davanti a te c’è una scena del mondo una qualunque, vedi quanto è preziosa, vedila bene, con calma, tieni la testa ferma, rallenta il giro del sangue. 

Che meraviglia che sia mattina, che abbia smesso di piovere.

C’è solo il respiro, forse ce n’è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l’arte della vita. La faccenda è teologica. 

Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia.

Molte albe, molte gentilezze, festeggiare molto spesso la luce, poco avere, scarsi indugi, minare il rancore, farlo saltare, meglio il silenzio, la carezza, il fiore.

Punta sulla nuvola e su altre cose mute, non tue, non vicine, non addestrate a compiacerti, punta sulla morte, anche sulla morte, sulla sua decenza, sul fatto che non ritratta niente, punta sulla luce, cercala sempre, infine punta sulla tua follia.

La notte scorsa nel mondo sono morte tante persone. Noi no. È bene ricordarsi ogni tanto il miracolo di stare nella luce del giorno, davanti a un albero, a un volto.

Non so quando è accaduto il massacro di ciò che è lieve, lento, sacro, inerme. 

Adesso per tornare a casa, per tornare assieme nella casa del mondo, non serve la rabbia, non serve lo sgomento, basta sentire che ogni attimo è un testamento.

Concedetevi una vacanza intorno a un filo d’erba, dove non c’è il troppo di ogni cosa, dove il poco ancora ti festeggia con il pane e la luce.

Cediamo la strada agli alberi”

Grazie…grazie alla mia famiglia, tutta, per essere cambiata con me…grazie per avermi cresciuta dentro la pietas, il senso di equità, il rispetto.

Grazie per non avermi mai fatto mancare l’appoggio, grazie del confronto, grazie della fiducia in me.

Grazie al mio compagno per aver camminato con coraggio al mio fianco in questi anni, grazie per il tuo metterti in discussione anche con fatica, grazie per il tuo parlare con me…è prezioso

Grazie alle mie compagne e compagni delle mie classi e non…sappiate che ho rubato un pezzo di ognuno di voi, ed è stato un onore per me, condividere con voi questo mio fondamentale passaggio della vita.

Un grazie particolare a chi mi ha permesso di far essere casa questo profondo nord, di far diventare la valle di neve e boschi, il mio mare verde.

Grazie ai docenti, grazie alla mia adorata toscanaccia per il grande cuore che hai, per il confronto, per il sostegno e grazie ad Arianna per aver saputo molto prima di me che cosa sarei potuta essere e per avermici accompagnata con con amore.

Parafrasando Baricco, direi che:

“Sono una donna felice, come lo dovrebbe essere qualunque donna al riverbero di questa età luminosa. Ho debolezze eleganti, e cicatrici charmantes. Non ho più illusioni sulla nobiltà delle persone, e per questo so apprezzare la loro inestimabile arte di convivere con le proprie imperfezioni.”