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La mia storia inizia in Africa, in Senegal, a febbraio del 2007.
Al tempo lavoravo come ricercatrice universitaria per il Politecnico di Torino, tra antropologi e geografi.
Mi occupavo di processi di cogestione nelle aree protette dell’Africa dell’ovest e facevo indagini sul terreno dai 3 ai 6 mesi all’anno.

Per dieci anni questa è stata la mia vita, tra l’Africa e l’Italia, tra due me: una africana e una europea. Erano anni di grandi esperienze di vita e professionali, molto intense e meravigliose, ma anche difficili, sofferte e dolorose. In Africa mi sono innamorata, mi sono ammalata (diverse volte), avevo amici e colleghi, tanti luoghi e nessun luogo, in una parola: una vita. In Africa ho conosciuto il razzismo al contrario, più di una volta sono stata presa a sassate o a bottigliate da bambini o ragazzini per strada perché ero una “bianca”, una toubab. È stato molto doloroso, ho provato per la prima volta uno strano senso di impotenza e vergogna per il  colore della mia pelle.

Quell’anno mi trovavo in missione nel nord del Senegal per seguire un progetto universitario nel parco di Djoudj, all’estremo nord del paese. Ero ospitata al Centro di Ricerca della Stazione Biologica del parco: un luogo completamente sperduto nella brousse africana, arido e desertico, con pochissima vegetazione e in un mondo tutto al maschile. Svolgevo indagini empiriche nei poverissimi villaggi circostanti. Durante la ricerca sul campo la vita era abbastanza dura: ero una donna, bianca e sola in questo mondo militare rigido e tutto al maschile. Non c’era acqua corrente né energia elettrica se non 1/2 ore al giorno, le condizioni igieniche erano molto precarie, si dormiva e si mangiava poco, ci si ammalava spesso.

Quel giorno dovevo andare a fare un’intervista al capo villaggio di uno dei villaggi più poveri e più lontani della zona, il villaggio di Fourrarate. Dovete immaginare piccoli insediamenti poverissimi, fatti di capanne e stracci in cui vivevano agricoltori o allevatori che vivevano con meno di 1 dollaro al giorno. Fourrarate era quasi al confine con la Mauritania, in una zona quasi desertica, senza alberi e con una temperatura che poteva arrivare a 45-50 gradi.

Normalmente per fare le mie indagini sul terreno mi muovevo con mezzi di fortuna, ma quel giorno il colonello Diop mi aveva permesso di avere un fuoristrada. E così all’alba siamo partiti: io, l’autista, una guardia forestale e il mio traduttore. Non so perché, ma lo ricordo con chiarezza, quel giorno invece di portare il mio solito litro e mezzo di acqua, parto con solo mezza bottiglia piena.

Per andare a Fourrarate mi dicono che non c’è una pista, ma mi rassicurano che l’autista ci sa arrivare… e invece dopo un po’ perdiamo l’orientamento. Immediatamente la mia mente va alla bottiglia d’acqua: siamo spersi in questa landa desertica, senza un telefono, non ci sono riferimenti se non terra e sabbia, e abbiamo solo mezzo litro in 4! Dopo 1 ora, la mia ansia cresce perché capisco che ci siamo proprio  persi, giriamo in tondo e con tutti questi giri abbiamo coperto le tracce degli altri penumatici che avrebbero potuto indicarci la strada. Dopo un tempo per me infinito, in cui già immaginavo titoli come “donna bianca dispersa nel nord del Senegal …”, finalmente appare come un miraggio il magro skyliner del piccolo villaggio di Forurrate.

Ci accolgono il capo villaggio, un uomo minuto e molto sorridente, e tutti i suoi consiglieri.

Ci fanno entrare nella loro piccolissima capanna di paglia, al cui interno non c’è praticamente nulla se non una grande stuoia, qualche sacco e un letto su cui sono appollaiati uno stuolo di bambini attoniti e curiosi per la mia “presenza bianca”. Ai lati del letto ci sono anche le sue mogli. Chiedo se posso procedere con l’intervista, ma il capovillaggio mi interrompe subito: “certo, ma non prima di aver mangiato!”. Rimango un po’ spiazzata, certamente non avevo pensato al pranzo, ma soprattutto – ben consapevole della povertà in cui versa questo popolo – sono molto in imbarazzo e provo a declinare l’invito per non sottrarre cibo a tutte quelle bocche da sfamare.

Mi giro verso la guardia forestale e il traduttore, Moussa e Paul, come per dire “ringraziali, ma meglio non accettare”, ma loro annuiscono come per dirmi “non puoi, sarebbe un’onta terribile, un rifiuto non  è  accettato”. Mi arrendo a malincuore perché proprio non mi va di privarli di quel poco che hanno. In pochi istanti arriva un vassoio al cui centro campeggiano poveramente quattro pugnetti di riso stinto, un mozzicone di carne e nell’ordine: mezza carota, mezza patata, un pezzo di manioca e qualche foglia di cavolo.

Siamo in 8, tutti uomini tranne me, e mangiamo come nei costumi africani: seduti per terra sulla stuoia, con le mani, tutti dallo stesso piatto. Il capovillaggio, come nell’ospitalità africana, prende l’unico pezzo di carne e lo spezzetta con gesti sicuri e me lo porge, e così con tutte le verdure, continuando a ripetermi “il faut manger, il faut manger!”. In poco tempo mi rendo conto che sono l’unica a mangiare la sostanza del piatto, tutti gli altri stanno mangiando piccoli grumi di riso stinti. I bambini non mangiano, le donne non mangiano. Ci guardano. In quel momento non mi sento bene, sono a disagio, mortificata, obbligata ad accettare qualcosa che mi appare profondamente ingiusto verso la sua famiglia, le donne, i bambini. Tanti sentimenti mi attraversano.

Terminata questa tortura interiore iniziamo l’intervista seduti nella penombra della capanna con un sole accecante che penetra dal piccolo varco d’ingresso: è un pomeriggio di lavoro intenso, di tante e preziose informazioni, di scambi e di consulto di mappe e dati, ma anche di chiacchiere personali, di istanti densi e intensi. Perdo, infatti, la concezione del tempo. Il capovillaggio si dimostra da subito disponibile, brillate, ma anche dolce e paziente, informato e capace, ma soprattutto sono la sua compostezza naturale e i suoi occhi brillanti a colpirmi. La sua presenza, seppur minuta e camuffata da un grande bubu blu elettrico, sprigiona grandezza che mi pervade e mi riempie allo stesso tempo. È uomo regale, posato, in una parola pieno di luce.

Arriva il momento dei saluti, come un comitato di congedo festante, escono tutti sorridenti a salutarmi: dai consiglieri, alle donne e ai bambini. Mi sento attraversare da uno strano stato di sofferenza nel separarmi da quel momento, da quella bolla, da quella famiglia, da quell’uomo. Un’accoglienza così generosa e calorosa da sconosciuti, e dall’altra parte del mondo (!), non l’avevo mai ricevuta.

Se chiudo gli occhi lo vedo ancora oggi di fronte a me: esile, dolce e compassionevole, come una gemma blu in quel torpore desertico. In quel momento ho provato dentro di me un profondo senso di gratitudine pensando a tutto quello che avevo ricevuto e a quello di cui si erano privati per me. Ancora oggi, a distanza di anni, conservo la commozione di quell’incontro. Gli sono profondamente grata per avermi accolta come una figlia, per avermi insegnato che cos’è l’amore incondizionato e disinteressato, al di là della parte del mondo in cui si nasce, al di là del colore della pelle.

Storie di gratitudine: Persi a Fourrarate

Germana Chiusano  – Counselor