Il linguaggio umano oltre ad essere un processo complesso dell’evoluzione biologica che coinvolge gesti, suoni e interazioni sociali, è anche il risultato di una serie di mutamenti ambientali e anatomici.
Attraverso la parola è possibile trasmettere non solo idee, pensieri e concetti ma anche emozioni, sentimenti, intuizioni, ispirazioni.
La sua origine ha una storia articolata e affascinante i cui punti chiave possono essere sintetizzati come segue:
1. Origine del linguaggio: gli scienziati si interrogano sulla nascita del linguaggio. Esistono varie teorie riguardo al momento in cui è emerso e ai cambiamenti biologici e ambientali necessari per svilupparlo.
2. Prerequisiti: per lo sviluppo di una lingua, sono necessari due presupposti: la capacità biologica di parlare e l’utilità sociale di farlo. La capacità di collaborare e la “joint attention” (ovvero la capacità, durante una interazione con un altro individuo, di guardare entrambi nella stessa direzione e capirsi) sono facoltà che hanno giocato un ruolo cruciale nello sviluppo del linguaggio. Senza esposizione a una lingua nei primi anni di vita, anche un bambino non impara a parlare.
3. Ruolo dei gesti: si ritiene che i gesti abbiano avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del linguaggio. Le prime pantomime potrebbero essere state la base per la creazione di una lingua.
4. Specializzazione del cervello: l’abilità manuale e la specializzazione delle aree linguistiche del cervello potrebbero essere andate di pari passo. Le persone mancine, ad esempio, hanno sviluppato aree linguistiche nell’emisfero opposto.
5. Associazione suono-gesto: associando suoni a gesti diversi, si possono ottenere significati differenti. Il primo vocabolario potrebbe essere nato da questa interazione. Alcuni studi suggeriscono che un gruppo di persone che emette suoni può sviluppare vocali e consonanti fino alla creazione di parole.
6. Sviluppo della grammatica: la grammatica potrebbe essere emersa circa mezzo milione di anni fa. La sequenza soggetto-verbo-complemento è diffusa in molte lingue ed è probabilmente nata spontaneamente.
Le parole non sono cose da passarci sopra, sarebbe come un passare sopra alle persone.
Siamo le parole che usiamo per dirci o, se non ci facciamo caso, siamo le parole usate dagli altri, siamo detti.
Chi come me scrive poesie, per esempio, può offrire le parole che mancano.
Scrivendo alcune poesie ho incontrato parole che neanche sapevo mancassero, parole che permettono a chi le incontra di riconoscere ciò che, pur esistendo di già, è come non esistesse del tutto finché non ha le parole per manifestarsi, restando su una soglia, in penombra.
La parola, è dunque uno degli strumenti principali di cui si serve il linguaggio, rappresenta “la chiave fatata che apre ogni porta”, come scriveva nelle sue lettere don Lorenzo Milani.
Con le giuste parole, si può dire tutto a tutti, indistintamente. Si può dichiarare di non essere d’accordo. Si possono sostenere scelte non convenzionali. Si possono affrontare discorsi spinosi. Bisogna però saper scegliere le parole più adatte, le migliori che ci salgono sulla punta della lingua, o meglio sulla punta del “cuore”.
Andrea Camilleri scrisse che “Ogni parola che viene detta vibra in un modo suo particolare, le parole che dicono la verità hanno una vibrazione diversa da tutte le altre” (“Un mese con Montalbano”). Nel tentativo di instaurare un dialogo, la verità fa sempre la sua figura. È inefficace ricorrere a parole a metà, a discorsi a mezza voce, fissando lo sguardo ovunque tranne che addosso all’interlocutore.
Se è arrivato il momento di parlare apertamente, anche se si tratta di qualcosa di scomodo, va esposto in modo limpido, con tono misurato ma deciso, guardando bene in faccia la persona con cui si sta parlando.
Ci sono parole che, quando vengono pronunciate, aiutano a guarire; parole che, appena vengono ascoltate, agevolano la rinascita.
Sono parole comuni che di per sé non hanno nulla di speciale se non quello di potersi trasformare in veri e propri amuleti a seconda di chi le proferisce e dell’intento di cui le permea.
Esistono parole capaci di calmare come la valeriana o di restituire la memoria come i nontiscordardime.
Parole che sanno di dolce come il miele e che, come le api, ronzano in testa per impollinare le idee. Parole capaci di far passare la voglia di piangere se solo se ne annusa la presenza tra le righe di un lungo silenzio.
La “magia” di queste parole risiede nella capacità di far luce al dolore portandolo fuori insieme alla pronuncia delle stesse.
Nel “Gorgia” di Platone, Socrate sostiene che “Accade che, quando ci si trova in disaccordo, e quando l’uno non riconosce che l’altro parli bene e con chiarezza, ci si infuria, e ciascuno pensa che l’altro parli per invidia nei propri confronti, facendo a gara per avere la meglio e rinunciando alla ricerca sull’argomento proposto nella discussione”.
“Il motivo per cui c’è il male nel mondo è che le persone non sono in grado di raccontare le loro storie” (cit. Carl Gustav Jung).
In un dialogo funzionale però l’obiettivo non è avere ragione ma capirsi un po’ di più rispetto a prima, capirsi un po’ meglio, facendo riferimento ad una “mappa mentale” comune che aiuti entrambe a viaggiare, seppur con mezzi diversi, nella stessa direzione.
Le parole si combinano tra di loro e si muovono in un dialogo che diventa danza. Inizia, si agita, s’infrange in silenzi che sembrano interminabili, poi basta un cambio di tono, e tutto ricomincia.
Oggi si tende a interessarsi molto dell’alimentazione e, prima di sedersi a tavola, ci si documenta.
Si cerca di assumere cibi sani, leggeri ed equilibrati. Oggi, infatti, si ha la possibilità di scegliere con cura e consapevolmente ciò di cui ci si nutre, prestando attenzione ai sali minerali, alle vitamine, ai carboidrati, agli zuccheri, alle proteine ed ai valori nutrizionali contenuti in ciascun alimento.
Esattamente come tutti i cibi contengono un principio vitale, parimenti anche nelle parole c’è un’energia capace di sostenere e di rinvigorire sia chi le proferisce che chi le ascolta.
Ecco, le parole hanno un sapore importante, soprattutto quando sono figlie del silenzio. Una sola parola, una sola frase, può essere “meditata”, cioè vissuta nel silenzio, anche per ore.
Spesso nel parlato come nello scritto alcuni termini vengono usati impropriamente, non perché non siano adeguati al contesto ma perché vengono utilizzati nel tentativo omologare il contenuto per far sì che sia “digeribile” da chiunque.
Di fatto però più si abusa di una parola, più quella parola perde di significato, perde il suo potere ed il suo potenziale, perde di vitalità.
Il potenziale terapeutico delle parole è infatti ampiamente riconosciuto anche dalle neuroscienze in quanto capace di produrre delle modificazioni all’interno dell’attività celebrale.
Nell’antichità gli sciamani e le curandere erano consapevoli del potere intrinseco alle parole e così come erano capaci di estrarre il potere curativo dalle erbe, parimenti sapevano quali parole accompagnare al medicamento per aumentarne l’efficacia. Raccoglievano le parole tramandate da chi prima di loro le aveva custodite: che fossero parole spontanee o coltivate, comuni o ricercate, il loro compito era quello di prepararle miscelandole, accordandole e amalgamandole tra di loro con la finalità di rigenerare lo spirito.
Sapevano infatti che all’interno della combinazione di più parole si nascondono la cura e la salvaguardia del benessere emotivo e spirituale dell’individuo.
Da questo procedimento ottenevano un distillato, un elisir composto dei termini e delle parole che risuonano in armonia con l’Anima, una formula imbibita delle proprietà terapeutiche necessarie a farla rifiorire.
Personalmente credo che basterebbe prestare attenzione all’effetto che hanno su di noi certe parole più di altre, sentire nel cuore come risuonano, sentire la presenza che le abita.
Basterebbe stare, senza chiedersi nulla, lasciarle scorrere dentro come l’acqua sulle foglie quando piove. Stare, nella certezza che ciascuna di loro appartiene a qualcuno che le ha amate prima ancora che noi fossimo e che nel dedicarcele ha conferito loro un’impronta unica ed inconfondibile.
Il Prologo del Vangelo secondo Giovanni afferma che il Verbo coesisteva con Dio da sempre e per sempre e «che tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste». Nel verso successivo, il Verbo viene identificato con la vita e con la luce del genere umano, la cui persistenza è il fine ultimo della Creazione, iniziata con l’evocazione divina della luce.
Sin dall’ antichità, l’uomo ha sentito l’esigenza di dare e darsi delle spiegazioni in merito alle sue origini, di ricordare da dove viene e di ritrovare le sue radici per poter capire dove sviluppare le sue fronde e verso quale cielo poterle rivolgere.
Ecco che con il bisogno di conservare una traccia della sua storia nascono i racconti, nascono i “miti”.
I miti sono narrazioni fantastiche, dove le parole si combinano tra di loro dando origine a vere e proprie leggende, tramandate oralmente o in forma scritta che cercano di spiegare l’origine del mondo, dell’umanità e i vari aspetti della realtà attraverso il coinvolgimento di eroi, dei, semidei e mostri legittimando talune pratiche rituali o rispondendo alle grandi domande che gli esseri umani si pongono. I miti sono l’esempio di come una storia sacra possa plasmare la cultura e la tradizione di intere civiltà.
Nel far riferimento agli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni, non si può fare a meno di citare il pensiero dello psichiatra e psicologo svizz. C. G. Jung (1875-1961), secondo il quale l’archetipo costituisce l’immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale riunisce le esperienze della specie umana e della vita animale che la precedette.
Ecco che attraverso questi racconti e la loro rappresentazione, avveniva quella guarigione altrimenti chiamata “catarsi” nel cui significato è racchiuso il potere taumaturgico della parola:
sf. [dal gr. κάϑαρσις «purificazione», der. di καϑαίρω «purificare»]
1. Nella religione greca, nella filosofia pitagorica e in quella platonica, indicava sia il rito magico della purificazione, inteso a mondare il corpo contaminato, sia la liberazione dell’anima dall’irrazionale. In particolare, secondo Aristotele, la purificazione dalle passioni, indotta negli spettatori dalla tragedia.
2. Nella storia dell’estetica, l’azione liberatrice della poesia che purifica dalle passioni; nell’estetica di B. Croce, il momento supremo dell’intuizione poetica. Con valore più ampio, nel linguaggio letterale, il termine è anche usato col senso generico di purificazione, liberazione dalle passioni.
3. In psicanalisi, processo di totale o parziale liberazione da gravi e persistenti conflitti o da uno stato di ansia, ottenuto attraverso la completa rievocazione degli eventi responsabili, che vengono rivissuti, a livello cosciente, sia sul piano razionale sia su quello emotivo.
In conclusione, la parola ha un potenziale terapeutico notevole. Scegliere le parole con attenzione e consapevolezza può migliorare le relazioni personali e contribuire al benessere emotivo.
Articolo di Chiara Vacchieri (corsista dell’Istituto Artemisia)