Germana Chiusano
Il World Anthropology Day 2024 dal titolo “Diversi e diseguali”, tenutosi quest’anno a Torino e a Milano, è stata l’occasione per discutere – tra i vari temi – di antropologia e counseling, coppia tematica non inedita ma ancora poco dibattuta e approfondita.
Uno degli obiettivi di questa iniziativa, giunta alla sesta edizione, è senz’altro quello di portare l’antropologia all’interno del tessuto sociale e del contesto urbano, ossia di “calare l’antropologia in città” affinché si possano manifestare le sue potenzialità extra accademiche in vista di nuove collaborazioni di carattere multidisciplinare, in altre parole per fare antropologia insieme ad altre forme di sapere.
Sulla scia di questo proposito nell’incontro che ho organizzato all’interno di questo evento in collaborazione con Arianna Garrone, Counselor e direttrice dell’Istituto Artemisia, e presieduto assieme a Laura Colombo – anch’essa Counselor – proprio nell’ottica di una convergenza interdisciplinare, ho deciso di far dialogare l’antropologia con il counseling attraverso lo strumento della narrazione autobiografica, terreno di frontiera e di discussione comune attraverso cui introdurre il tema delle dinamiche relazionali e della diversità culturale.
L’antropologia e il counseling hanno molti punti di contatto e tra questi certamente l’interesse per le interazioni umane che governano e animano i rapporti tra uomini e gruppi sociali, da cui prendono forma esperienze di vita soggettive, assimilabili a quelle che in antropologia vengono definite storie di vita.
A questo incontro sono state portate le esperienze concrete di tre testimoni che hanno condiviso le loro personali storie di vita: una donna italiana che ha raccontato l’excursus difficile della malattia rara che ha colpito suo figlio, un uomo di nazionalità ruandese che ha descritto le difficoltà di integrazione in Italia al suo arrivo, e una giovane donna che ha scelto una vita coraggiosa e anticonformista in alta montagna.
Raccontare…raccontarsi
Fin dall’infanzia veniamo cresciuti ed educati ad ascoltare storie, fiabe e racconti attraverso cui, più o meno consapevolmente, ci vengono trasmessi simbolicamente immagini e significati archetipici. I racconti costituiscono la forma di conoscenza più antica nella storia dell’umanità e in essi – come nei riti iniziatici delle comunità tradizionali – si possono ravvisare le nostre radici storiche. G. Bateson, a questo proposito, scriveva che «pensiamo per storie», ovvero comunicare la propria esperienza attraverso il racconto è una pratica fondativa connaturata alla natura umana.
Il focus che ho rivolto alle storie di vita – strumento tipicamente antropologico ma che ben converge nelle prassi del counseling – mette al centro dell’attenzione le emozioni e le pratiche che consentono agli individui di intraprendere un percorso di riconoscimento di sé e delle proprie risorse.
La storia di vita, in quanto testimonianza attiva e ritratto personale e culturale del soggetto narrante, lavora su due piani: il primo, quello interiore e personale dell’individuo che si apre ad un processo di autoguarigione attraverso la condivisione di un’esperienza segnante; il secondo quello esteriore, plurale, attraverso cui nella condivisione collettiva della storia l’ascoltatore estraneo può riconoscere parte di un proprio vissuto.
Partendo da una visione sistemica il racconto autobiografico guida al riconoscimento delle risorse del narratore ed assurge a strumento di cura e guarigione sia individuale che collettiva. Ascolto e condivisione diventano gli assi portanti di un processo di trasmissione di esperienze individuali che costruiscono lo spazio per un apprendimento collettivo secondo una visione circolare, di scambio di punti di vista.
Il racconto autobiografico, per sua natura, apre a paesaggi interiori spesso inediti e sconosciuti al narratore stesso, svela nuove porte d’ingresso attraverso cui abbracciare una progressiva consapevolezza di sé. In altre parole: «il viaggio autobiografico è cura di sè, è autoterapia che segnala luci e ombre del necessario conflitto interiore che conduce alla costruzione dell’identità personale» (Trisciuzzi, Sandrucci, Zappaterra 2005).
Similmente lo psicoanalista Boris Cyrulnik considera il racconto come un inizio di liberazione in cui «disponiamo le nostre rappresentazioni passate e future in modo da comporre una verità narrativa»; ossia una ricostruzione della propria realtà e del proprio sentire da cui si srotola un filo rosso che da personale e soggettivo si fa comune e plurale nell’intercettare traiettorie di vita che congiungono gli esseri umani tra loro e al mondo esterno.
Il racconto di sé stimola la ricerca di soluzioni creative nella propria esperienza di vita al fine di diventare protagonisti attivi delle proprie scelte, per imparare a progettare la propria vita nella consapevolezza del divenire, della trasformazione continua.
Raccontarsi vuol dire, quindi, attivare un processo trasversale dal punto di vista temporale poiché comporta l’affrontare il proprio passato per trasformare il presente e costruire il futuro. A questo proposito C. Pinkola Estes scrive: “Secondo la mia esperienza il momento della narrazione della storia trae il suo potere da una colonna di umanità unita attraverso il tempo e lo spazio […] tutto sta in quella lunga catena umana”.
Il potere della narrazione autobiografica
Clarissa Pinkola Estés, psicoanalista e scrittrice statunitense di origini ispano-messicane, nel suo celebre libro Donne che corrono coi Lupi esamina la figura della cantadora che nella cultura tradizionale messicana è la custode di vecchie storie. In questo testo la figura del narratore è assimilata a quella del guaritore, ed Estes stessa afferma: «le storie sono fenomeni portatori di guarigione. Sono medicine che rafforzano e guidano l’individuo e la comunità; la loro forza è quella di agire da dentro verso fuori, in questa duplice azione interno-esterno».
La narrazione autobiografica nella sua autentica unicità spezza il senso di isolamento, apre alla diversità, ci fa sentire parte di un sistema sociale in cui ci si può reciprocamente identificare; stimola la fantasia e l’immaginazione che incoraggiano la capacità di “creare”, di dare piena forma alla propria esistenza operando delle scelte. Il narrare è quella forma di comunicazione che costituisce il nucleo fondante con cui diamo un senso alla nostra esistenza. Significa dipanare la matassa del nostro vissuto, intrecciare le diverse esperienze compiute attorno a un centro a cui attribuire un significato preciso.
La forza del racconto autobiografico sta anche nel riuscire a raccontarsi distanziandosi dal proprio vissuto, dalla propria realtà e riuscendovi attribuire un significato in cui molti possono rintracciare un senso comune. Una realtà, quella della vita, che lo psicologo Carl Rogers definiva “unica e irripetibile” ma al tempo stesso distinguibile, in cui è possibile sentire di appartenere e riconoscersi. La narrazione autobiografica, infatti, è scevra di opinioni: le esperienze di vita non sono né giuste né sbagliate, semplicemente “sono”, ma soprattutto sono giuste per chi le ha vissute in quanto frutto di un’esperienza personale e non oggettiva.
Le storie hanno un grande potere perché sono in grado di riportare in superficie fino alla nostra coscienza l’archetipo del proprio sé: sono disseminate di istruzioni che ci guidano nella complessità della vita. Entriamo in contatto con le storie attraverso la porta dell’ascolto interiore e scopriamo che costituiscono un deposito di identità.
Narrare e narrarci significa svelare uno storytelling che rappresenta un artefatto psicologico frutto di processi cognitivi, affettivi, emotivi e neuronali di vari segmenti della nostra vita. Il racconto autobiografico diventa, così, uno strumento importantissimo tramite cui comprendiamo, assimiliamo e integriamo i diversi punti di vista che animano il nostro pensiero e che intervengono come ricerca di soluzione. Mentre ci raccontiamo inevitabilmente ripensiamo al nostro agito, a quello che abbiamo fatto, sbagliato, comunicato, quindi ci auto-osserviamo e ci auto-esploriamo per mezzo della nostra narrazione.
Le storie di vita sono luce e ombra, manifestano le debolezze ma anche la forza, le strategie con cui abbiamo fronteggiato le difficoltà. Jung affermava che «Non c’è presa di coscienza senza sofferenza». Infatti, come ci ricorda il counseling, la dimensione autobiografica della narrazione è una negoziazione continua per l’individuo verso sé stesso e nella relazione sociale; è l’occasione per una crescita interiore, un’opportunità di conoscenza e apprendimento di sé e degli altri. Per questa ragione ricopre una funzione educativa per conoscersi e farsi conoscere, ma anche sociale “per imparare a stare” e a confrontarsi con la società, la collettività.
L’etnografia della cura
Si narra che l’antropologa inglese Margaret Mead abbia raccontato ad un suo studente che il primo segno di civiltà in una cultura antica sia stato un femore rotto e poi ricomposto da qualcuno. Mito o realtà, questo racconto ci rammenta quanto la dimensione della cura ci definisca in quanto esseri umani, al di là del sistema, del metodo o dell’approccio.
In questo balance tra couseling e antropologia hanno preso forma diversi studi etnografici che hanno messo al centro il tema della cura e del contesto culturale. Mi vengono in mente, ad esempio, le ricerche sull’etnopsichiatria e i saperi culturali della cura di Roberto Beneduce in Africa, o i lavori di Ivo Quaranta, vero e proprio pioniere dell’antropologia medica in Italia che parla di “medicina interculturale” facendo riferimento a sistemi di cura “culturalmente diversi” spesso riferibili a contesti tradizionali o indigeni. Si tratta di sistemi di cura del disagio, del malessere o di malattie sociali che molto spesso hanno dimensione comunitaria.
A questo proposito il celebre etnopsichiatria francese Tobì Nathàn affermava che «ciascuno si cura con la propria cultura» e che la medicina più diffusa nel mondo è proprio la preghiera, ossia un sistema di credenze tradizionali culturalmente e territorialmente connotate.
Nathàn sottolinea proprio la necessità di uscire da una visione etnocentrica del malessere invitando i terapeuti a cambiare punto di vista: il disagio psico-fisico o le malattie psichiche e mentali delle persone non europee devono essere valutate non con criteri e pratiche occidentali che ne impediscono una reale e contestualizzata comprensione, ma secondo un approccio che tiene conto del loro contesto culturale di riferimento. Le culture organizzate in modo diverso da quello occidentale utilizzano codici, criteri e approcci terapeutici diversi in virtù di un quadro culturale di riferimento in cui spesso fatichiamo a riconoscerci e per questo lo giudichiamo non funzionante.
Lungimirante e saggia C. Pinkola Estes sottolinea: «Le storie mettono in moto la vita interiore e ciò è particolarmente importante là dove la vita interiore è spaventata, incastrata, o messa alle strette. Le storie ingrassano carrucole e pulegge, stimolano l’adrenalina, ci mostrano la via d’uscita in basso o in alto, e aprono per noi grandi finestre in muri prima ciechi, aperture che conducono nella terra dei sogni, all’amore e alla conoscenza, che ci riportano alla nostra vita vera come esseri umani sapienti […] Ascolta, dunque, con l’anima perché questa è la missione delle storie».